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Dino

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VINCERE SENZA REAGIRE.

l'editoriale di Marco Travaglio

17 ottobre 2023

La guerra libanese del 1982 e l’indagine su Sabra e Chatila lasciano Israele sotto choc per un bel pezzo. I nemici, anziché indebolirsi, si rafforzano e si moltiplicano. Soprattutto l’Iran dell’ayatollah Khomeini, che nel ’79 ha spodestato lo Scià, prepara la bomba atomica (Tel Aviv ha bombardato il suo reattore nucleare di Osiraq nell’Operazione Babilonia del 1981) e patrocina Hezbollah, il “partito di Dio” che riunisce un milione di sciiti nel Sud del Libano, ma è presente anche in Siria e nel Golan occupato da Israele. E martella con missili e razzi i kibbutz dell’Alta Galilea. Ogni guerra fomenta nuovo terrorismo, anziché spegnerlo. E dal 1981 è venuto a mancare un argine fondamentale all’estremismo: il presidente egiziano Sadat, assassinato da un killer della Jihad per punirlo della pace con Israele e rimpiazzato dal vice Hosni Mubarak. Neppure i palestinesi se la passano bene, sempre più ostaggi di Israele nei Territori, ma anche stritolati dai finti amici arabi che li usano per giocare ciascuno la propria partita. Arafat e gli altri capi dell’Olp, espulsi nel 1971 dalla Giordania dopo averla incendiata, vengono cacciati anche dal Libano e traslocano in Tunisia, con strascichi di polemiche interne per i troppi lussi.

La spaccatura nell’opinione pubblica israeliana si fa sentire alle elezioni del 1984: il Likud di Yitzhak Shamir, subentrato nell’83 a Begin, perde la maggioranza. Nasce un governo di unità nazionale guidato dal laburista Shimon Peres. Nel 1985 l’Olp di Arafat dimostra un’altra volta tutta la sua ambiguità: il gruppo Fplp del filosiriano Abu Abbas dirotta e sequestra in acque egiziane la nave da crociera italiana Achille Lauro. Arafat fa il doppio gioco: si dichiara estraneo al gesto, ma poi media col premier Bettino Craxi e il ministro degli Esteri Giulio Andreotti per la liberazione degli ostaggi. Però si scopre che i feddayin hanno trucidato a sangue freddo un anziano ebreo americano paraplegico, Leon Klinghoffer, gettandone il corpo e la carrozzella in mare. Il presidente Usa Ronald Reagan sospetta che Craxi voglia sottrarre i terroristi alla giustizia, fa dirottare l’aereo che li trasporta e lo costringe ad atterrare nella base Nato di Sigonella, per portarli in America e processarli. Craxi si scontra violentemente con lui e schiera i carabinieri sulla pista, bloccando il blitz dei marines. Poi però, dopo aver giurato che l’intero commando sarà giudicato in Italia, lascia fuggire Abu Abbas su un aereo jugoslavo a Belgrado, ospite del maresciallo Tito, da dove il capo del Fplp raggiungerà lo Yemen e poi l’Iraq di Saddam Hussein. Le truppe di invasione americane lo scoveranno nel 2003 in una villetta appena fuori Baghdad e lo uccideranno.
segue a pagina 5

L’Intifada. Nel 1987, ventennale dell’occupazione di Gaza e Cisgiordania, i palestinesi si rivoltano in massa contro Israele: è l’Intifada (“sollevazione”). Durerà sei anni, fra proteste, scioperi, boicottaggi, violenze e repressioni. Alla fine i morti palestinesi saranno circa 2 mila e gli israeliani 160. Le immagini dei ragazzini armati di fionde che lanciano sassi contro i soldati fanno il giro del mondo, campeggiano a lungo sui notiziari e sono un altro duro colpo per Israele, sempre meno Davide e sempre più Golia. Ma l’aspetto più mediatico dell’Intifada nasconde quello più truculento: il ruolo del neonato Hamas (acronimo di Movimento Islamico di resistenza), un’organizzazione politico-militare palestinese sunnita e fondamentalista filiata dai Fratelli musulmani egiziani, installata soprattutto a Gaza e finanziata dai regimi sunniti. Hamas ha un volto pubblico, che gestisce programmi sociali portando nella Striscia ospedali, scuole e biblioteche, si propone di distruggere Israele e tornare alla Palestina pre-1947 e polemizza con i vertici corrotti dell’Olp. Ma anche uno clandestino: l’ala militare delle Brigate al-Qassam, che organizzano e rivendicano attentati kamikaze contro obiettivi civili israeliani.

Gli Scud di Saddam. Nel 1988 Arafat dichiara di rinunciare al terrorismo e nel 1989 crolla il Muro di Berlino. La dissoluzione dell’Urss sembra portare un po’ di calma anche in Medio Oriente, ma è solo il preludio a una nuova tempesta. Il 2 agosto 1990 l’Iraq di Saddam invade e annette il Kuwait, minacciando l’Arabia Saudita. Il 17 gennaio 1991 la coalizione fra gli Usa di George Bush e altri 34 Paesi, inclusi gran parte di quelli arabi, ottiene l’avallo dell’Onu e scatena l’operazione “Desert Storm”, che in poco tempo caccerà l’Iraq dal Kuwait senza però rovesciare Saddam. La sera dell’attacco, Tel Aviv e Haifa vengono colpite da missili Scud iracheni: otto il primo giorno e 33 nelle cinque settimane successive, quasi sempre di notte. Israele, che non fa parte della coalizione, ripiomba nell’incubo: è dal 1948 che le sue città non venivano bombardate. I cittadini vivono per due mesi barricati nelle case o nei bunker, con le maschere antigas e le finestre sigillate col nastro adesivo, mentre l’esercito distribuisce fiale di atropina, nel timore – per fortuna infondato – che qualche testata sia caricata con agenti biologici o chimici, tipo Sarin e gas nervino. Arafat, in barba alla rinuncia al terrorismo, si schiera con Saddam: invita “musulmani e arabi a opporsi alla guerra americana e sionista contro un Paese fratello”, esalta “l’epica determinazione del popolo iracheno sotto il comando del mio fratello Saddam”, sostiene che l’uso del napalm da parte degli Usa dà all’Iraq “le ragioni e il diritto di usare armi chimiche” contro Israele. Ma il suo appello cade nel vuoto, a parte i giovani palestinesi dei Territori che esultano sui tetti a ogni suono di sirena e schianto di missile. Il bilancio delle vittime sarà molto più contenuto dello choc emotivo: due israeliani morti per gli Scud, qualche decina per infarto, migliaia di feriti e di senzatetto. E una vittoria ottenuta senza muovere un dito: una lezione che vale anche oggi.

Shamir vince, Arafat no. Al governo, dal 1986, c’è di nuovo il Likud di Yitzhak Shamir, che sotto la pioggia di Scud dà una formidabile prova di sangue freddo e lungimiranza: per la prima volta nella sua storia, Israele non risponde a un attacco nemico. Bush parla con Shamir e lo convince a soprassedere al blitz già pronto contro l’Iraq. In cambio, installa subito in Israele batterie anti-missile Patriot e dalle portaerei nel Golfo bombarda le rampe di lancio irachene. È chiaro che Saddam tenta di nobilitare con la causa palestinese la sua bieca mossa imperialista in Kuwait, trascinare in guerra Israele e spaccare la coalizione arabo- occidentale. Missione fallita.

A fare le spese della doppiezza di Arafat, che ancora una volta ha puntato sul cavallo sbagliato, è il suo popolo: appena liberato dagli invasori, il Kuwait espelle il mezzo milione di palestinesi che lì vivevano e lavoravano (il 30% della popolazione). Intanto le monarchie e gli emirati d’Arabia tagliano i fondi all’Olp. Il vecchio leader è a un bivio: o sparigliare i giochi e trattare la pace, o sparire. E sceglie la prima strada. Anche perché, dopo sei anni di Likud, nel 1992 in Israele tornano i laburisti: Rabin premier e ministro della Difesa, Peres ministro degli Esteri.

Miracolo a Oslo. Il 13 settembre 1993, dopo un anno di trattative top secret, mediate in parte dalle amministrazioni americane di Bush padre e di Bill Clinton (che s’è insediato alla Casa Bianca in gennaio) e in parte dall’Ue con l’avallo della Russia di Boris Eltsin, Rabin e Arafat firmano a Oslo uno storico accordo di pace. L’Olp rinuncia formalmente alla lotta armata e riconosce a Israele il diritto di esistere; Israele riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese, con il diritto di governare su una buona porzione dei territori occupati nel 1967. Nella Dichiarazione di principio su un’autonomia palestinese transitoria di cinque anni siglata dai due leader, Israele si impegna a ritirarsi entro il 1998 da gran parte della striscia di Gaza e Cisgiordania e di affidarle a una Autorità nazionale palestinese (Anp). La Cisgiordania sarà divisa in tre zone: la A sotto il pieno controllo dell’Anp, la B cogestita da palestinesi (per gli aspetti civili) e israeliani (per la sicurezza), la C (la più folta di insediamenti ebraici) ancora sotto Israele. Alcuni dei nodi più intricati – Gerusalemme, i rifugiati palestinesi e le colonie israeliane – sono rinviati a un nuovo negoziato. Rabin e Arafat vengono ricevuti sul prato della Casa Bianca da Clinton e dall’altro garante dell’accordo: il ministro degli Esteri russo Andrei Kozyrev. Un anno dopo vengono insigniti, insieme a Peres, del premio Nobel per la Pace.

L’effetto-Oslo, oltre alla fine dell’Intifada, produce il secondo accordo arabo-israeliano fra Stati dopo quello di Camp David del 1978 fra Israele ed Egitto. Nel 1994 anche la Giordania fa pace con Tel Aviv, dopo una storica stretta di mano fra re Hussein e Rabin alla Casa Bianca. Nascono l’Autorità nazionale palestinese e la sua polizia nei Territori. Israele lascia subito una parte di Gaza e si ritira dall’enclave di Gerico, anche se non allenta la morsa sui lavoratori palestinesi della West Bank e di Gaza, sigillate anche per chi va a lavorare nello Stato ebraico. La Lega Araba, dopo 46 anni, toglie l’embargo a Israele e ai Paesi che vi fanno affari. Sembra scoccata l’ora della pace. Ma è solo un’altra quiete prima dell’ennesima tempesta.

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10 ANNI DI STOP&GO

l'editoriale di Marco Travaglio

18 ottobre 2023

I sogni muoiono all’alba, ma anche la sera. Tel Aviv, piazza dei Re d’Israele, 4 novembre 1995, ore 21.30. Il premier Yitzhak Rabin termina il suo discorso a una manifestazione di sostegno agli accordi di Oslo che dilaniano il Paese: “Vorrei ringraziare ognuno di voi che è venuto qui oggi a manifestare per la pace e contro la violenza. Questo governo, che ho il privilegio di presiedere con il mio amico Shimon Peres, ha scelto di dare una possibilità alla pace, una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele… La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. Poi scende dal palco e, mentre sta per raggiungere l’auto blindata della scorta, uno studente israeliano di estrema destra, Yigal Amir, gli spara due colpi di pistola. Rabin muore poco dopo in ospedale: ucciso, come Sadat 14 anni prima da un fanatico jihadista, per avere firmato la pace proibita. Ai suoi funerali a Gerusalemme, insieme a un milione di israeliani e a molti capi di Stato e di governo da tutto il mondo, partecipano diversi leader arabi che non hanno mai messo piede in Israele.

La prima volta di Bibi. A Rabin succede Peres, ma dura pochi mesi. Le elezioni del 1996 le vince il nuovo leader del Likud, il 47enne Benjamin Netanyahu detto “Bibi”, che diventa il primo premier israeliano nato nello Stato ebraico. Militare, politico, uomo d’affari e di malaffari, vissuto per anni negli Usa, in campagna elettorale Bibi ha vellicato la pancia e le viscere degli ebrei più diffidenti sul percorso di pace, promettendo agli elettori di fare a pezzi gli accordi di Oslo. Mette in piedi il governo più a destra della storia di Israele, alleandosi con gli ultranazionalisti e i partiti religiosi. E inizia a demolire tutto ciò che non solo Rabin e Peres, ma anche i padri del suo partito Begin e Shamir, hanno costruito negli ultimi 18 anni da Camp David in poi. La nascita del suo governo è il “tana liberi tutti” per il ritorno all’odio e alla violenza. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, frenati da Rabin, riprendono a spron battuto. Intanto Arafat è stato eletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Netanyahu, pur ritirando l’esercito dai territori occupati come previsto dagli accordi di Oslo, li sabota nei fatti con continue provocazioni. E così, come già aveva fatto Rabin prima di Oslo, rafforza consapevolmente Hamas, suo vero alleato occulto all’insegna del “tanto peggio tanto meglio”, che moltiplica gli attentati suicidi contro i civili israeliani. Clinton si danna l’anima per ricucire la tela e sembra farcela: Bibi, complice il suo primo scandalo di corruzione, vede sfarinarsi la sua coalizione di governo: nel 1999 perde le elezioni anticipate e lascia la politica per dedicarsi ai suoi affari.

Barak, l’occasione mancata. Il nuovo premier è il generale ed economista laburista Ehud Barak, ritira subito Israele dalla “fascia di sicurezza” nel Libano del Sud e riprende i negoziati con l’Olp. È convinto che perpetuare l’occupazione dei Territori “condurrà inevitabilmente o a uno Stato non-democratico o ad uno Stato non-ebraico. Infatti, se i palestinesi voteranno, saremo uno Stato binazionale; se non voteranno, saremo uno Stato segregazionista”. E nel 2000, a Camp David, sotto lo sguardo di Clinton, offre ad Arafat una soluzione tutt’altro che perfetta, ma la più vantaggiosa mai proposta da Israele dal 1967: uno Stato palestinese nel 73% della Cisgiordania (che entro 25 anni salirebbe al 90% e intanto verrebbe integrato da una porzione di Negev) e nel 100% della striscia di Gaza, con Gerusalemme Est capitale, il ritorno di un certo numero di profughi e un indennizzo per quelli restanti. Arafat rifiuta senza neppure avanzare una controproposta, fa fallire il summit e imbocca il viale del crepuscolo. Anche il governo Barak, rimasto col cerino in mano, entra in crisi. E il Likud torna a spopolare, non più con Netanyahu, ma con Sharon.

L’eroe del Kippur, azzoppato dalla guerra libanese e dall’inchiesta su Sabra e Chatila (nel 1983 la Corte Suprema israeliana ne aveva ordinato la rimozione da ministro della Difesa), si rilancia con uno dei suoi temerari gesti dannunziani. Il 28 settembre 2000 passeggia platealmente e provocatoriamente sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, con un migliaio di militari di scorta, per proclamare anche la città orientale “eternamente israeliana”. Le furibonde proteste palestinesi sfociano nella seconda Intifada, molto più cruenta della prima, sia per la sempre più massiccia presenza di Hamas con i suoi attentati ormai fuori dal controllo dell’Anp, sia per la durezza della repressione israeliana. Durerà fino al 2005, mietendo oltre 4 mila vittime palestinesi e mille israeliane.

Muore Arafat, risorge Sharon. Nel 2001 l’Onu torna protagonista sullo scacchiere mediorientale dopo decenni di latitanza per la Guerra fredda: il segretario generale Kofi Annan convince gli Usa di George W. Bush, la Russia di Putin e l’Unione europea a dare vita insieme con lui a un “Quartetto per il Medio Oriente” per riannodare il filo spezzato di Oslo. Nello stesso anno Israele torna alle urne e vince Sharon. Il suo primo atto è chiudere ogni rapporto con l’ormai inutile e screditato Arafat, confinato e assediato nel suo quartier generale di Ramallah. Il secondo è una raffica di bombardamenti su Gaza e Cisgiordania, con almeno tremila case distrutte, oltre al porto della Striscia. Nel 2004 un missile israeliano uccide lo sceicco Ahmed Yassin, cofondatore e capo spirituale di Hamas, mentre esce da una moschea a Gaza. Israele inizia a costruire un muro divisorio dai Territori: ufficialmente serve a fermare gli attentati kamikaze, che si assottigliano drasticamente; nei fatti complica vieppiù la vita già infame dei palestinesi. Sembrano tutte mosse per seppellire gli accordi di Oslo, ma ciò che accade di lì in poi dimostra che c’è dell’altro.

Arafat è ormai isolato anche fra i suoi, dopo tanti errori politici e sospetti di corruzione. Il suo ultimo atto è licenziare il suo stesso premier Abu Mazen. Poi entra in coma e l’11 novembre muore. Di cosa, nessuno lo saprà mai, perché sul corpo non viene effettuata alcuna autopsia prima della sepoltura a Ramallah. Qualcuno parlerà di Aids, chi di altre cause naturali, chi di avvelenamento da polonio. Sepolto il vecchio Yasser, sparita la sua corte, si rafforza una nuova classe dirigente palestinese in grado di trattare con Israele attorno ad Abu Mazen, confermato dalle elezioni come premier dell’Anp.

Addio a Gaza. Nell’estate del 2005 Sharon fa la mossa del cavallo: ritira unilateralmente l’esercito da Gaza. Il 12 settembre l’ultimo soldato di Tsahal lascia la Striscia, che passa sotto il pieno controllo dell’Anp. Israele però vigila a distanza via terra, cielo e mare. Il momento più drammatico del “disimpegno” è la rimozione forzata degli 8.500 coloni ebraici, che non vogliono saperne di sloggiare da Gaza e vengono sgomberati con le maniere spicce dai loro 21 insediamenti. Altri sgomberi di coloni Sharon li ordina dal Nord della Cisgiordania, scatenando altre proteste e scontri con l’esercito. Che succede nella testa del superfalco? Si è rammollito? No, sta soltanto seguendo il percorso di altri “duri”, come Begin, Shamir e Rabin: la Storia chiama anche lui a guardare oltre se stesso, a elevarsi da politicante a statista. E lui, a 77 anni, risponde. Il suo discorso alla nazione del 15 agosto 2005 dice tutto: “Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me è un momento particolarmente difficile… Come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo Paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione. Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza… Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati. Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai”.

La strana coppia. Ormai, nel Likud, Sharon è guardato con sospetto, come una specie di traditore. Il redivivo Netanyahu, tornato alla politica come ministro delle Finanze, lascia il governo in polemica col ritiro da Gaza. Ariel taglia corto: il 21 novembre pianta in asso il suo partito e ne fonda uno nuovo di centro liberale, Kadima (“Avanti”), a cui aderisce subito l’avversario di sempre, Shimon Peres, che molla i laburisti. I due grandi vecchi, il simbolo del pugno di ferro e quello del guanto di velluto, gli ultimi statisti nati prima di Israele si danno la mano per accompagnarlo nella traversata del deserto più difficile: quella verso il futuro. Ma la nuova speranza durerà meno di un mese.

(4 – continua)

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UN ICTUS CAMBIA LA STORIA.

l'editoriale di Marco Travaglio

19 ottobre 2023

Il 18 dicembre 2005, quattro mesi dopo il ritiro da Gaza e un mese dopo la fondazione del partito Kadima, Sharon è colpito da ictus. Viene dimesso dall’ospedale due giorni dopo, ma il 4 gennaio 2006 una grave emorragia cerebrale lo mette definitivamente ko. A marzo, mentre è in coma, il suo vice Ehud Olmert vince le elezioni e diventa premier ad interim in attesa del suo risveglio. Che non arriverà mai: il suo cuore smetterà di battere otto anni dopo, nel 2014, quando il successore Netanyahu avrà riportato Israele indietro anni luce, vanificando gli sforzi degli ultimi statisti.

Hamas vince le elezioni. Il 25 gennaio 2006, mentre Sharon lotta fra la vita e la morte in ospedale, i palestinesi di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est vanno alle urne per eleggere il loro Parlamento, il Consiglio legislativo dell’Autorità nazionale (Anp). Il presidente Abu Mazen, con mossa lungimirante, ha convinto Hamas a partecipare al voto con suoi candidati, in cambio della fine degli attacchi e degli attentati a Israele. Sharon s’è opposto all’idea, ma il Quartetto per il Medio Oriente Onu-Usa-Ue-Russia l’ha incoraggiata. E Hamas ha accettato di formare una sua lista, ha smesso di predicare la distruzione di Israele e ha accettato, almeno a parole, l’ottica di Oslo: “due popoli, due Stati”. Dalle urne esce un risultato a sorpresa: vince Hamas, battendo al Fatah di Abu Mazen col 44% contro il 41. E va al governo: un po’ grazie all’apparente svolta moderata, un po’ per la disciplina e la sobrietà dei suoi leader opposta alle spaccature e alla corruzione di al Fatah. Il 30 gennaio il Quartetto si congratula col popolo palestinese per come ha partecipato alle elezioni, ma subito dopo si attiva per isolare il nuovo governo democraticamente eletto. Usa e Ue intimano ad al Fatah di non entrare nel governo di coalizione proposto Hamas e bloccano gli aiuti (e financo i rapporti bancari) non ad Hamas, ma all’Anp. Il boicottaggio crea gravi danni alla sanità, all’istruzione e all’occupazione nei Territori, prima incoraggiati a votare e poi puniti per aver scelto il partito sbagliato. È un altro regalo dell’Occidente ad Hamas che, forte dei finanziamenti dal Qatar e dalle monarchie sunnite, si accredita sempre più come unico baluardo del popolo alla fame. D’ora in poi Abu Mazen non indirà più elezioni per evitare di riperderle. E si condannerà a un crescente discredito agli occhi dei suoi.

Ancora fuoco. Il risultato è il ritorno dell’estremismo e della violenza. A giugno Hamas rapisce il soldato israeliano Ghilad Shalit (sarà liberato solo cinque anni dopo, in cambio del rilascio di 1.027 detenuti palestinesi) e Israele ne approfitta per scatenare nella striscia le operazioni Pioggia d’Estate e Nuvole d’Autunno.

Intanto il governo Olmert lancia un’altra offensiva nel Sud del Libano contro Hezbollah che bombarda la Galilea: 1100 morti in un mese.

Nel 2007 esplode una sanguinosa guerra civile fra palestinesi. Le milizie di Hamas cacciano con la forza al Fatah da Gaza e ne assumono il controllo, mentre in Cisgiordania al Fatah uccide o rimpiazza molti deputati di Hamas, messa fuori legge da Abu Mazen. Con tanti saluti alle elezioni democratiche, al Fatah torna al potere in Cisgiordania con l’appoggio di Usa e Ue. Israele e l’Egitto mettono Gaza sotto embargo, peggiorando vieppiù la vita della popolazione (oltre la metà è disoccupata). E la Striscia diventa la rampa di lancio per razzi e missili di Hamas contro Israele. Che nel 2008 riparte all’assalto di Gaza con le operazioni Inverno Caldo e Piombo Fuso (1.200 morti).

Il ritorno di Bibi. Il governo dello sbiadito Olmert, azzoppato da un processo per finanziamenti illeciti e dal flop della campagna libanese, cade nel 2009. Le elezioni le rivince Kadima con la nuova leader Tzipi Livni, ma non ha i numeri per governare. Ce la fa Netanyahu, grazie a un accordo col capo dell’estrema destra Avigdor Lieberman. È il suo secondo governo, a cui ne seguiranno altri cinque: Bibi batte il record di Ben Gurion come premier più longevo della storia d’Israele con 13 anni di potere ininterrotto, dal 2009 al 2023, tranne la parentesi dei governi Bennett e Lapid (giugno 2021-dicembre 2022).

Nel 2010 Obama riavvia negoziati a distanza fra Netanyahu e Abu Mazen, che però si interrompono quando Bibi riprende a spron battuto la colonizzazione della Cisgiordania. Straccia gli accordi di Oslo. E torna a colpire Gaza nel 2012 con l’operazione Colonna di Nuvola e nel 2014 con Margine di Protezione (2.200 palestinesi e 71 israeliani uccisi). Nel 2015 riesce a dichiarare al Congresso sionista mondiale che “Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli”, poi però fu traviato dal Muftì di Gerusalemme (lo zio di Arafat). Ma la maggioranza degli elettori continua a votarlo. Anche quando dopo che va a giudizio in tre processi per corruzione, frode e abuso d’ufficio. E persino quando inizia a foraggiare Hamas contro l’Anp di Abu Mazen.

L’amico di Hamas. Nel 2018 accetta che il Qatar trasferisca milioni di dollari all’anno al governo di Hamas a Gaza. In una riunione del Likud ammette che “chiunque vuole ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi di Giudea e Samaria” (anche con il famoso muro divisorio ampliato con una barriera sotterranea). Concetto ribadito persino davanti alla polizia che lo interroga in uno dei suoi processi: “Abbiamo dei vicini che sono nostri acerrimi nemici… Io mando loro messaggi in continuazione, li inganno, li destabilizzo, li prendo in giro e li colpisco in testa… Noi controlliamo l’altezza delle fiamme”. S’illude, da apprendista stregone, di pilotare le fiamme di Hamas per bruciare Abu Mazen. Così come pensa di rimuovere il bubbone palestinese senza curarlo, ma ignorandolo in attesa che scompaia da solo. Il refrain è lo stesso di Zelensky: “Non si tratta con il nemico”. Infatti il 13 agosto 2020 firma gli Accordi di Abramo con gli Usa di Trump, gli Emirati Arabi e il Bahrein, in attesa di farlo con l’Arabia Saudita. Il tutto sulla testa e sulla pelle dei palestinesi: l’ideona prevede l’annessione del 30% della Cisgiordania.

Ma i dati demografici sono impietosi: Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e 500 mila di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza 2,4. Traduzione: i palestinesi sono ormai più degli ebrei e fanno più figli. Un’annessione della Cisgiordania consegnerebbe loro la maggioranza parlamentare e addio Stato ebraico. Sharon l’aveva capito nel 2005. Netanyahu neppure ora: nasconde la vecchia polvere sotto il tappeto e ne accumula di nuova.

Nove mesi di proteste. Nel 2022, per tornare al potere, arriva ad allearsi con Potere Ebraico del fanatico suprematista Itamar Ben-Gvir: condannato per istigazione al razzismo contro i palestinesi, varie volte incriminato, celebre per aver minacciato pubblicamente Rabin due settimane prima del suo assassinio, Ben-Gvir diventa ministro della Sicurezza nazionale. Il duo inizia a picconare la democrazia israeliana con due controriforme che demoliscono la divisione dei poteri: quella della giustizia espropria la Corte Suprema del potere di cassare le decisioni “irragionevoli” del governo (come ha appena fatto bloccando la nomina a ministro di un pregiudicato per corruzione e frode fiscale e come potrebbe rifare se Netanyahu fosse condannato); e quella dell’ordine pubblico crea una polizia speciale, la Guardia Nazionale per Israele, alle dipendenze di Ben-Gvir. Due vergogne che spaccano il Paese: 40 settimane di proteste con migliaia di persone in piazza, inclusi militari e riservisti.

Netanyahu frattanto continua a finanziare nuovi insediamenti in Cisgiordania: nel 1993, l’anno di Oslo, i coloni erano 110 mila, ora sono circa 500 mila (più 220 mila a Gerusalemme Est). Occupando ben 157 kmq di Territori, sono invisi ai palestinesi invasi ed espropriati di terre e falde acquifere. E costringono Israele a sforzi immani per proteggerli: 500 posti di blocco e gran parte dell’esercito ridotto a loro scorta armata.

L’ultima mattanza. Infatti è lì, sul fronte Nord cisgiordano e libanese, che il 7 ottobre 2023 stazionano 26 battaglioni, lasciando senza bussola i servizi segreti (un tempo i migliori del mondo) e sguarnito il fronte Sud di Gaza, presidiato da appena due compagnie di reclute e dalla polizia locale. E proprio sul fronte Sud alle 6.30 del 7 ottobre 2023, all’indomani del cinquantennale della guerra del Kippur, mentre Israele festeggia il Simchat Torah (“Gioia della Torah”), Hamas sferra l’operazione Alluvione Al-Aqsa: 2.500 terroristi s’infiltrano da Gaza in Israele su autocarri, camioncini, moto, persino deltaplani e colpiscono vari kibbutz e un rave party. Lo Stato ebraico viene colto totalmente impreparato, malgrado gli allerta dei servizi egiziani e americani su un pericolo imminente. È una mattanza, la più grave strage di civili subìta da Israele: circa 1.400 uccisi in un giorno, compresi molti bambini e donne, e oltre 200 ostaggi. Netanyahu, giunto ormai al capolinea, tenta di ricompattare il Paese che lui stesso ha spaccato con un governo di unità nazionale. E scatena su Gaza l’operazione Spade di Ferro: 3.500 palestinesi morti, di cui mille bambini, in undici giorni. Si avvera la profezia di Gandhi: “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”.

(5 – fine)

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PULIZIA LINGUISTICA

l'editoriale di Marco Travaglio

20 ottobre 2023

Chi sproloquia di pulizia etnica, genocidio, olocausto, shoah, nazismo, apartheid, guerra di civiltà dovrebbe farci la grazia di un po’ di pulizia linguistica, cioè mentale. Magari leggendo qualche libro. Usare le parole giuste per descrivere ciò che accade non sminuisce di un grammo le responsabilità: aiuta solo a capire il problema. C’è ben poco di etnico nella guerra israelo-palestinese: Hamas uccide a sangue freddo gli ebrei israeliani non in quanto ebrei, ma in quanto israeliani; Israele bombarda gli abitanti di Gaza non perché sono palestinesi (lo sono anche 2 milioni di cittadini ed elettori di Israele), ma perché Gaza è la roccaforte di Hamas. L’Olocausto-Shoah è un unicum storico: nessuna strage, per quanto ampia ed efferata, può esservi accostata (con buona pace di Netanyahu che, dopo averlo foraggiato, paragona Hamas al nazismo). Il genocidio è lo sterminio pianificato di un intero popolo: gli ebrei e gli zingari nei lager nazisti, gli armeni e pochi altri nella storia. Idem per l’apartheid: chiunque abbia visto o studiato come viveva la maggioranza nera in Sudafrica sa che non c’è paragone con Israele, la Cisgiordania e persino l’inferno di Gaza.

La guerra di civiltà fra Occidente buono e resto del mondo cattivo, fra democrazie e dittature, oltre a portare sfiga, è un’altra scemenza: sia per la guerra russo-ucraina sia per quella israelo-palestinese. Putin non ha invaso l’Ucraina perché è democratica (fra l’altro non lo è), ma perché stava entrando nella Nato e, dopo otto anni di guerra civile, minacciava il suo tutoraggio sui russofoni di Donbass e Crimea. Non regge neppure l’equazione “fronte pro Ucraina e anti Russia=fronte pro Israele e anti Hamas”: la Russia ha buoni rapporti con Israele (che non arma Kiev), mentre Usa e Nato hanno ottime relazioni col Qatar e i regni sauditi che armano e ospitano Hamas. E Israele ha appena rimbalzato l’imbucato Zelensky che, sparito dai radar, cercava una passerella a Tel Aviv. Hamas non ha massacrato 1400 israeliani il 7 ottobre perché Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. Ma perché vuole rappresentare la maggioranza dei palestinesi ostili all’occupazione delle loro terre. Nel 2006 Hamas aveva persino accettato, almeno a parole, le regole democratiche e rinunciato alla lotta armata per partecipare alle prime (e uniche) elezioni dell’Autorità nazionale palestinese, accogliendo l’invito del presidente Abu Mazen e del Quartetto Onu-Ue-Usa-Russia. Poi le aveva vinte, era andato al governo e Usa&Ue avevano iniziato a boicottare l’Anp. Da allora i palestinesi, pro o anti Hamas, hanno capito cos’è la democrazia per noi “buoni”: una finzione che evapora se vince chi non vogliamo noi.

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DALLA MELA ALLA PESCA

l'editoriale di Marco Travaglio

21 ottobre 2023

La guerra per la Striscia di Gaza ci aveva un po’ distratti da quella, ben più decisiva per le sorti dell’umanità, per Striscia la Notizia. Ora che ‘’è chiusa con un blitzkrieg (il post della Meloni che molla Giambruno), possiamo trarne alcune provvisorie conclusioni. Non sugli aspetti privati della Guerra dei Melones. Ma su quelli pubblici, politici.

1. Chi di famiglia tradizionale ferisce di famiglia tradizionale perisce. Nessuno può dare lezioni di vita privata a nessuno. Ma qui crolla l’arrogante e ipocrita propaganda delle tre destre sulla famiglia tradizionale, dai Family Day alle intrusioni anche normative nei rapporti affettivi, dalla difesa di Vannacci e della sua “normalità” all’uso politico-elettorale dello spot della pesca. E viene smascherato il servilismo della stampa di destra (e non solo) che da 30 anni prende sul serio questi maestri di famiglia tradizionale capitanati prima dal puttaniere B. (che, va detto, faceva tutto in onda, non fuori), poi dal plurimaritato e plurifidanzato Salvini, infine dai Melones. Chissà che ora i sepolcri imbiancati non si decidano a vivere come pare a loro e a lasciarci vivere come pare a noi.

2. Chi di conflitto d’interessi ferisce di conflitto d’interessi perisce. Il post scriptum della Meloni contro “tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa”, fa il paio col “non sono ricattabile” a B. durante le trattative sulla Giustizia, ed è indirizzato anche a Mediaset. Che è stata fondamentale per la crescita vertiginosa del brand Meloni e che, morto B., continua a detenere la cassa e dunque le chiavi di Forza Italia. Noi sappiamo che ciò che fa Antonio Ricci lo decide solo lui: Striscia è l’unica repubblica separata nel Regno del Biscione (a parte il fatto di non attaccare la proprietà). Ma, finché non verrà risolto quel conflitto d’interessi e spezzato quel mostruoso trust finanziario-editoriale, tutto ciò che accade fra Mediaset e il governo sarà letto in chiave politica. Così come la resistibile ascesa di Giambruno in parallelo a quella della fidanzata e la sua repentina discesa agli inferi in sincronia con la separazione da lei. Ora forse la premier capirà l’errore di aver giustificato il conflitto d’interessi del suo ex (e pure il proprio), difeso i suoi deliri e attaccato i pochi giornali critici tirando in ballo la libertà di stampa,che è l’opposto.

3. Chi di Veronica ferisce di Veronica perisce. Quando la Lario piantò B. perché andava a minorenni, la destra politico-mediatica si schierò con lui e lapidò lei come “velina ingrata”. Ora che Giorgia pianta Andrea, sono tutti con lei. E non perché ha ragione lei (come l’aveva Veronica), ma perché comanda lei. La destra italiana è passata dal Banana ai Meloni, ma resta sempre una barzelletta: prima quella vecchia della mela, ora quella nuova della pesca.

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IL "GIORGIALE".

l'editoriale di Marco Travaglio

22 ottobre 2023

L’unico aspetto che merita rispetto nella Giambruneide è il turbamento di Giorgia Meloni. Il resto è commedia all’italiana. Il povero Tajani, vaso di coccio tra gli acciai dei B. e della premier furiosa, sta per chiedere asilo ad Hamas. Ma il meglio lo dà la stampa di destra. Che, quando B. faceva mille volte peggio di Giambruno – e in onda, non fuori, e da premier, non da giornalista tv, e con escort e/o minorenni, e se ne vantava pure – era schierata anima e lingua con lui: è fatto così, esuberante e scorretto, gli piacciono le donne, beato lui, che male c’è, sempre meglio della sinistra che va a gay e a trans. Sallusti, già adibito a scudo umano, argomentava con la sua logica stringente: “E Kennedy, allora? Se la faceva con Marilyn” (che era maggiorenne, non faceva la escort e Kennedy non chiamò l’Fbi per farla rilasciare dopo un arresto, ma fa niente). E ogni giorno sbatteva sul Giornale un nuovo alibi di ferro che scagionava il latrin lover di Hardcore: “Gli amori privati della Boccassini: fu sorpresa in atteggiamenti sconvenienti con un giornalista di sinistra” (era il suo fidanzato nel 1980 e i due addirittura “si baciavano mentre camminavano” per strada); “Catherine Spaak esordi#768; 17enne nel film La voglia matta vietato ai 14… e il vecchiaccio Tognazzi impazziva per lei”; “Ecco il leader nudo (e in un luogo pubblico). Non è Berlusconi, ma un giovane Nichi Vendola nel campo nudisti a Capo Rizzuto”; “Claudia Mori nel 1985 nel film Joan Lui diretto e interpretato da Celentano (il marito, ndr) indossa un vestito bianchissimo… trasparente ovunque, tutto compreso, seno e pure il resto, il pube s’intende”. Quindi B. era innocente. E Veronica era una “velina ingrata” (Vittorio Feltri dixit su Libero , con foto della Lario svestita in palcoscenico).

E ora contrordine maschilisti! Son diventati tutti femministi, e antemarcia: tutti con la donna (quella che comanda) e contro lo sporcaccione. Sallusti sul Giornale, anzi il “Giorgiale”: “Meloni dimostra coerenza… la fermezza che le ha permesso di scalare la montagna della vita e della politica”, mentre Giambruno “non ha capito di che pasta è fatta questa donna”, “forte ma dolce”. Da Libero ti aspetteresti il sequel della velina ingrata, o della patata bollente. Invece si riesuma la Fallaci: “Giorgia, la rabbia e l’orgoglio”. Straziante l’editoriale “La lezione di una leadership” dell’ex portavoce Mario Sechi, che non riesce a scollare la lingua di lì. E, siccome Giorgia dice di aver mollato Andrea “da tempo” (il 2 ottobre erano a teatro da Pio e Amedeo), Libero retrodata la rottura al 2021, perché nel libro di Giorgia “Andrea appare come papà di Ginevra e non l’uomo della vita”. A saperlo prima, oggi Mediaset non dovrebbe cacciarlo: perché non gli avrebbe dato un programma.

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MA MI FACCIA IL PIACERE

l'editoriale di Marco Travaglio

23 ottobre 2023

Vota il titolo peggiore. “Basile, la pseudo ambasciatrice diventa star in tv perché equipara Hamas a israeliani e americani” (Laura Cesaretti, Giornale, 13.10). “La meteora Basile che in tv trasforma le vittime in carnefici… Nei talk su Gaza Basile è in quota filo Hamas” (Stefano Cappellini, Repubblica, 13.10). “Ostaggi di Basile” (Massimo Gramellini, Corriere della sera, 13.10). “La mitomania di Elena Basile” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 14.10). “All’Apostolico manca solo di schierarsi con Hamas”, “Quel filo rosso che unisce progressisti, centri sociali e terroristi” (Libero, 16.10). “’Ebrei italiani, nascondetevi’” (Libero, 17.10). “I grillini votano per salvare Hamas” (Libero, 20.10). “Vogliono cacciare gli ebrei da Roma” (Libero, 22.10). Ripetono a pappagallo che Israele è l’unica democrazia mediorientale mentre sfilano ai funerali di un’ex democrazia europea.

1, 2, X. “Questa guerra non si può pareggiare: o si vince una volta per tutte o si perde” (Daniele Capezzone, Libero, 17.10). Dài che si arruola.

Kiev provincia di Tel Aviv. “Siamo sicuri che la Russia sostenga, in un modo o nell’altro, le operazioni di Hamas in Israele” (Volodymyr Zelensky, Corriere della sera, 11.10). “Il fronte unico tra Kyiv e Gerusalemme” (Foglio, 11.10). “Putin e il veleno antisemita” (Andrea Romano, Repubblica, 13.10). “Uniti per Kiev e Gerusalemme” (Gianni Vernetti, Repubblica, 16.10). “Israele e Ucraina sono i fronti di una stessa guerra” (Francesco Merlo, Repubblica, 19.10). “L’accusa alla Russia di complicità con Hamas è una completa assurdità. La Russia non è coinvolta in alcun modo. Pura teoria del complotto” (Aleksandr Ben Zvi, ambasciatore israeliano a Mosca, 10.10). I servi sbugiardati dal padrone.

Forza gregge. “Dall’Ucraina a Gerusalemme l’Italia bipartisan di Meloni e Schlein” (Maurizio Molinari, Repubblica, 15.10). Governo e “opposizione” che dicono tutti la stessa cosa e la grande stampa a ruota: Hamas ne sarà orgoglioso.

I veri problemi/1. “Una nuova data per l’addio e 400 mila euro in ballo. Renzi-Calenda, saga infinita” (Repubblica, 20 e 21.10). Ecco, fateci poi sapere.

L’educatore. “Qui s’inserisce la piccola vicenda del ‘terzo polo’ che tante ironie ha sollevato: non meritate… Renzi dispone di mezzi limitati, tuttavia è palese il tentativo di ‘educare’ la destra” (Stefano Folli, Repubblica, 20.10). Ci domandavamo giusto se esistesse ancora qualche pirla che crede nel “terzo polo”: esiste.

Le mani avanti. “Intelligence Usa avverte l’Italia: ‘Rischio interferenze russe sul voto’” (Repubblica, 22.10). I cosacchi già abbeverano i loro cavalli alle fontane di Monza, Trento e Foggia: comunque andrà, avrà stato Putin.

Assolto, dunque reo. “Apostolico e il caso del figlio. Il centrodestra: si dimetta” (Messaggero, 16.10). “Tale madre, tale figlio. Altro scandalo per l’Apostolico” (Giornale, 16.10). “Apostolico testimoniò contro la polizia. Ennesimo imbarazzo per la giudice” (Libero, 16.10). Caso, scandalo e imbarazzo dipendono dal fatto che il figlio è stato assolto.

Assolti, dunque folli. “Cestinata una valanga di denunce contro le follie di Conte e Speranza. Il Tribunale dei ministri ha archiviato migliaia di esposti sulla gestione Covid” (Verità, 15.10). È la nuova frontiera del garantismo: se vieni scagionato, hai torto tu e ragione chi ti ha calunniato.

Nuovi esuli. “Saviano condannato a una multa di mille euro per aver definito ‘bastarda’ Meloni: ‘Disprezzo il governo, lascio il Paese’” (Stampa, 13.10). Io invece, con i miei 82 mila euro per aver dato troppe volte del “bullo” a R., lascio il pianeta.

Esclusi i presenti. “Nessun governo può silenziare i giudici” (Giuliano Amato, Stampa, 17.10). Tranne il governo Craxi, di cui Amato era il suo sottosegretario alla Presidenza.

sc**o chi scrive. “Il viaggio della Meloni in Mozambico e Congo: ‘Scriverò con l’Africa il Piano Mattei’” (Libero, 14.10). L’Africa è già tutta lì che scrive.

Lui non capisce. “L’incomprensibile fanatismo religioso” (Angelo Panebianco, Corriere della sera, 14.10). Prova a vivere un paio d’ore a Gaza, poi vedi che diventa comprensibile.

Grasso che cola. “Corona in tv, dobbiamo scandalizzarci per lui o per chi lo invita?” (Aldo Grasso, Corriere della sera, 19.10). Ma il problema non era chi invita Orsini e la Basile?

L’assolto condannato. “Con Lucano è assolto il Sud” (Merlo, Repubblica, 12.10). “Lucano riabilitato” (Stampa, 12.10). “La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha assolto Mimmo Lucano da tutte le imputazioni e liberato da tutte le imposizioni inventate per punirlo” (Furio Colombo, Repubblica, 15.10). Veramente l’assolto è stato condannato a 1 anno e 6 mesi per falso in atto pubblico, assolto da altri capi di imputazione, prescritto per un altro falso e un abuso d’ufficio, improcedibile per una serie di truffe grazie alla legge Cartabia, varata nel corso del processo. Però dai, fa niente.

Robin Merlo. “I giustizieri della Calabria Saudita, gli sceriffi di Sherwood” (Merlo sui pm e i giudici di primo grado del processo Lucano, Repubblica, 12.10). Che poi sarebbe Nottingham, ma che sarà ma.

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L'AUTOTRAPPOLA DI BIBI

l'editoriale di Marco Travaglio

24 ottobre 2023

Se Bibi Netanyahu conoscesse la storia del Paese che sgoverna, non continuerebbe a combattere un fenomeno invisibile come il terrorismo di Hamas con l’artiglieria e i carri armati, armi utilissime contro gli eserciti, cioè contro i nemici visibili. E capirebbe che l’invasione di Gaza, con una lunga e sanguinosa guerra-guerriglia tunnel per tunnel, vicolo per vicolo, è il sogno di Hamas, che la prepara da anni e aspetta giusto un pollo che cada nella trappola. Biden lo ha invitato a non ripetere gli “errori dell’Occidente dopo l’11 Settembre” (così chiama un milione di morti ammazzati tra Afghanistan e Iraq). Ma il peggior errore che può commettere Israele è ripetere i propri. Le quattro guerre contro gli eserciti arabi le ha vinte tutte: 1948-1949, 1956, 1967 e 1973. Quelle contro il terrorismo invece le ha vinte solo quando ha usato l’intelligence (il mitico Mossad) con blitz chirurgici e ben studiati: quello, durato vent’anni, per eliminare tutti i terroristi coinvolti nella strage di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco 1972; quello, durato mezz’ora nella notte del 4 luglio 1976, per liberare i passeggeri del volo AirFrance dirottato dai fedayin palestinesi a Entebbe (Uganda). Almeno quest’ultima storia Bibi dovrebbe conoscerla, visto che nel raid israeliano l’unica vittima fu il suo fratello maggiore, il tenente colonnello Yoni Netanyahu.

Invece, ogni volta che ha preteso di combattere il terrorismo con l’esercito, Israele ha sempre perso. È accaduto nelle due guerre del Libano. Quella del 1982, scatenata da Begin e Sharon per schiacciare i gruppi palestinesi dell’Olp che bombardavano l’Alta Galilea dal Sud del Paese, finì malissimo con: l’assassinio del presidente amico Gemayel; la strage di Sabra e Chatila; Sharon e Begin a casa; e nel Libano meridionale, al posto dell’Olp, gli ancor più feroci terroristi filoiraniani di Hezbollah impegnati a colpire l’Alta Galilea. E quella del 2006 avviata dal governo Olmert fallì dopo un mese, con Hezbollah più forte e violento di prima. Ma è accaduto nelle infinite rappresaglie contro Hamas a Gaza dopo il ritiro deciso da Sharon nel 2005: le operazioni di Olmert nel 2006-’08 (Pioggia d’Estate, Nuvole d’Autunno, Inverno Caldo e Piombo Fuso); e quelle di Netanyahu nel 2012 (Colonna di Nuvola) e nel ’14 (Margine di Protezione, con 2.200 palestinesi e 71 israeliani uccisi). Dopo ogni operazione, il terrorismo anziché diminuire aumentava e Hamas e Hezbollah, anziché indebolirsi, si rafforzavano. Andrà così anche con l’operazione Spade di Ferro, seguita alla mattanza di Hamas del 7 ottobre. Resta da capire se Netanyahu ci è o ci fa. Ma, in entrambi i casi, a Israele conviene liberarsene subito. Non dopo l’operazione di terra. Ma prima, per evitarla.

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PRIVACY RETRATTILE.

l'editoriale di Marco Travaglio

25 ottobre 2023

Ogni tanto la politica è scossa da una gran fregola di privacy. Accade di solito quando qualche politico di destra finisce nei casini per vicende private inconfessabili che, riguardando un politico, private non sono quasi mai. Men che meno quando quel politico usa le sue vicende private (quelle confessabili) per acchiappare voti. Era accaduto con B., sta riaccadendo con la Meloni per via dei bollori dell’ormai ex fidanzato. Ma il problema non è la premier, a parte la sua ossessione per i nemici esterni che le impediscono di vedere quelli di casa. Il problema sono i cultori della privacy retrattile, intermittente, a seconda di chi ci va di mezzo. Libero è il giornale della “patata bollente” Virginia Raggi, a cui avevano inventato (non solo Libero: pure Repubblica) un amante inesistente, Salvatore Romeo, quello delle polizze, oltre a diversi altri, trasformandola nella nuova Messalina. Ora Libero di Sechi, che starnutisce appena la Meloni prende il raffreddore, piagnucola: “Il concetto di privacy non va cestinato”. E dedica a un’intervista alla Roccella lo strepitoso titolo: “È la famiglia il vero bersaglio della sinistra” (dove non si capisce bene chi svolga il ruolo della sinistra nella vicenda: Giambruno? Mediaset? Il Gabibbo?). Filippo Barbano, avvocato d’ufficio delle cause perse, definisce i fuorionda di Striscia “una ferita alla democrazia”. E Alessandro Campi, sul Messaggero, lacrima per la “politica che guarda nel buco della serratura”, come se uno studio televisivo fosse un’alcova. Anche il Giornale di Sallusti e Feltri è affranto perché “nessuno ha pensato ai diritti di Giambruno” (neppure Giambruno) e perché Report dà notizie sull’eredità di B. (“fango infinito a urne aperte”, ma a bara abbondantemente chiusa).

Non vorremmo sbagliarci, ma i campioni destroidi della privacy sono gli stessi che invocavano (giustamente, trattandosi di personaggi pubblici) il diritto di cronaca per le foto di Silvio Sircana, portavoce di Prodi, che dava un’occhiata a un viado e finì sulla prima del Giornale; per il video girato da quattro carabinieri ricattatori su Piero Marrazzo, presidente Pd del Lazio, a un festino con trans e coca e gentilmente offerto in visione privata a B. (che poi telefonò a Marrazzo per fargli sapere che sapeva tutto ed era molto dolente) e poi finito su Libero; e per l’informativa di questura pubblicata dal Giornale che dipingeva Dino Boffo, il direttore di Avvenire reo di criticare il p*****aio di B., come “noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni”, informativa che però era un falso. È pur vero che Sircana, Marrazzo e Boffo non erano minimamente paragonabili a B. e a Giambruno: si erano scordati di iscriversi alla destra.

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UN CORONA AL GOVERNO

l'editoriale di Marco Travaglio

26 ottobre 2023

Incredibile ma vero, nel 2023 siamo ancora qui a occuparci di Sgarbi. Come se non avesse passato la vita a dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la sua assoluta incompatibilità con qualsiasi incarico pubblico. Un motivo a caso, tratto dalla collezione: nel ’96 la Cassazione l’ha condannato a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni del ministero dei Beni culturali perché era dipendente della Soprintendenza del Veneto, ma non ci metteva quasi mai piede, esibendo falsi certificati medici e inventando malattie immaginarie (dal “cimurro”, tipico dei cani, all’“allergia ai matrimoni”), che naturalmente non gli impedivano di insultare ogni sera i migliori pm a Sgarbi quotidiani su Canale 5. Ora è sottosegretario ai Beni culturali che ha truffato. E la colpa non è neppure sua. È di chi ce l’ha messo (B.) e rimesso (Meloni). Di chi l’ha fatto eleggere cinque volte al Parlamento e una all’Europarlamento. Di chi gli ha regalato una collezione di poltrone almeno pari a quella di dipinti (comprati non si sa come, visto che risulta sempre nullatenente), aiutandolo a usare le casse dello Stato come un bancomat: sindaco di Salemi (subito sciolto per mafia), S. Severino, Sutri e Arpino, prosindaco di Urbino, assessore in Sicilia e a Viterbo, consigliere regionale in Lombardia, commissario a Codogno, presidente di Ferrara Arte, Mart di Trento, Mag di Riva del Garda, Gypsotheca del Canova… Poi, regolarmente, chi l’ha promosso se ne pente e scopre chi è con l’aria del “chi l’avrebbe mai detto”. Come il povero ministro Urbani, che Sgarbi accusò di favoritismi a un’attrice in cambio di compensi indicibili (per noi, non per lui) e ne fu accompagnato all’uscio. Ora tocca a Sangiuliano, che non lo voleva, non gli parla e non vede l’ora di liberarsene.

Tre mesi fa il nostro stilnovista impreziosì il Maxxi con una dotta prolusione sul suo pene e la sua prostata (“questa troia p*****a di m**da”) e, quando qualcuno obiettò, si paragonò nell’ordine a: Pasolini, Califano, Battisti, Mozart e Da Ponte. Ma nessuno pensò di congedarlo: anzi, avercene. Ora il Fatto documenta che ha continuato, da sottosegretario, a fare ciò che ha sempre fatto, assetato com’è di denaro per risarcire tutti quelli che ha insultato: il juke box. Infili il soldino e canta la tua canzone preferita. Il guaio è che, stando al governo, la legge lo vieta in nome di quella strana cosa che l’art. 97 della Costituzione chiama “imparzialità dell’Amministrazione”. Ma lui è il Fabrizio Corona della politica: più danni fa, più se lo contendono. Quasi quasi ne chiederemmo le dimissioni, se non temessimo di fare ciò che ha già fatto Striscia con i fuorionda di Giambruno: un favore al governo. Ma è uno sporco mestiere e qualcuno deve pur farlo.

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IL NONNETTO DOVE LO METTO

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27 ottobre 2023

Eravamo in pensiero per Giuliano Amato, rimasto col culetto al freddo dopo una vita al calduccio alla tenera età di 85 anni. Prematuramente scaduto dalla Consulta, speravamo che le sue sparate retrattili sulla strage di Ustica inducessero la Rai a riesumare Telefono Giallo per affidargliene la conduzione: se ha un programma Nunzia De Girolamo, c’è speranza per tutti. Invece niente. Fortuna che FI, tradizionalmente sensibile al dramma degli anziani disoccupati, gli è corsa in soccorso nominando l’emerito indigente alla presidenza della Commissione Algoritmo: che non è uno scherzo, ma l’organo consultivo del governo sull’Intelligenza Artificiale. Molto più fico del Comitato Calderoli per valutare il nuovo Porcellum dell’autonomia differenziata, in cui Amato si era fiondato con agile balzo, per poi dimettersene subito dopo. Perché lui fa sempre così: agguanta una poltrona per aggiungerla alla collezione, poi si annoia e se ne va. Non per nulla, nella sua quarantennale vita politica – quattro ministeri, una vicepresidenza e due presidenze del Consiglio, cinque mandati parlamentari col Psi e col centrosinistra e mezza dozzina di candidature al Quirinale – diede tre volte l’addio alla vita politica: nel 1992, nel ’97 e nel 2008.

Intanto, fra un ritiro e l’altro, collezionava un’ottantina di poltrone in 40 anni: presidente dell’Antitrust e della Treccani, docente alla Sapienza, membro del Comitato nazionale e del Coordinamento nazionale del Pd (qualunque cosa significhino), presidente della “commissione Attali” all’amatriciana del sindaco Alemanno, consulente Deutsche Bank, presidente onorario della Fondazione Ildebrando Imberciadori, presidente dei Garanti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, garante del Codice etico-sportivo del Coni, vicepresidente della Convenzione Ue, presidente del Comitato per riscrivere la Carta Ue, consulente di Monti sui fondi ai partiti, presidente della Scuola Sant’Anna di Pisa nonché dei relativi ex-allievi, ma pure dell’International advisory board di Unicredit, presidente onorario del Circolo Tennis Orbetello, giudice poi vicepresidente poi presidente della Corte costituzionale e tante altre belle cose. Il tutto a sua insaputa, visto che in una straziante intervista a Rep dichiarò: “Io non faccio parte della Casta” (come se qualcuno l’avesse mai sospettato). Voi capite la drammatica astinenza da cadrega e la nobiltà del gesto caritatevole di FI. Ora purtroppo corre voce che la Meloni voglia levargli di bocca pure l’Intelligenza Artificiale, come vendetta trasversale contro FI, cioè Mediaset, per Giambruno. Non sia mai: il poveretto potrebbe non riaversene più. Giorgia, non farlo: con tutti i guai che ti dà la famiglia, adotta un nonno.

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IL DIPLOMATICO.

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28 ottobre 2023

“L’obiettivo è distruggere Gaza, questo male assoluto”. L’ha detto a Rete4 Dror Eydar, ex ambasciatore di Israele a Roma dal 2019 al ’22. Non distruggere Hamas, ma Gaza: un territorio abitato da 2,3 milioni di palestinesi che in stragrande maggioranza non hanno alcun rapporto con Hamas. Buona parte dei maggiorenni ha al massimo votato Hamas alle ultime e uniche elezioni legislative per l’Autorità nazionale palestinese nel 2006, quando noi occidentali spiegammo loro che dovevano diventare democratici ed eleggere liberamente i propri rappresentanti. Poi, siccome vinse Hamas sia nella Striscia sia in Cisgiordania, Usa e Ue iniziarono a boicottare economicamente non Hamas, ma l’Anp, affamando e spingendo vieppiù la gente verso gli estremisti. Ma metà della popolazione è formata da bambini, che non votano, ma voteranno. E, continuando a trattarli così, possiamo immaginare per chi, sempreché qualcuno li chiami ancora alle urne. “Noi – ha aggiunto l’ex ambasciatore – non siamo interessati a discorsi razionali. Ogni persona che minaccia un ebreo, che vuole uccidere un ebreo, deve morire”. Ma si è scordato di spiegare come si fa a riconoscere chi, fra quei 2,3 milioni di civili quasi tutti inermi, vuole uccidere ebrei: a meno di presumere che lo vogliano tutti e sterminarli tutti.

Già l’idea che un simile soggetto che usa un tale linguaggio sia un diplomatico, se non fosse tragica sarebbe comica: perché è l’antitesi della diplomazia, anche di quella più ipocrita che usa toni suadenti ed espressioni soavi per nascondere le peggiori nefandezze del Paese che rappresenta. Ma il fatto che il governo israeliano mandi in giro per l’Europa a spiegare le sue ragioni figuri come Eydar, la dice lunga sull’ottusità dell’attuale classe dirigente di Tel Aviv. Che, anche dimenticando per un attimo gli orrori in corso a Gaza, non si pone minimamente il problema del consenso internazionale, convinta che le verrà permesso qualsiasi crimine di guerra per vendicare il terrificante “pogrom” di Hamas del 7 ottobre. È la terribile sintesi della storia israelo-palestinese di questi 14 anni di Era Netanyahu-Hamas: il sistematico sabotaggio bipartisan degli accordi di Oslo del ’93, siglati da Arafat e Rabin sul principio “due popoli, due Stati” e proseguiti da Sharon col ritiro da Gaza. Quel principio, così in voga in Occidente, è sparito da un pezzo dai radar del Medio Oriente: Israele è grande quanto la Puglia, ma ha la popolazione della Lombardia; la Cisgiordania è grande quanto la Liguria e Gaza è un decimo della Val d’Aosta e hanno ciascuna la popolazione della Calabria. Altro che “due popoli, due Stati”: oggi l’epilogo più probabile è “nessun popolo, nessuno Stato”.

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TRAGICA, MA NON SERIA

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29 ottobre 2023

Spostiamo per un attimo lo sguardo dalla tragedia di Gaza, dove Hamas si nasconde sottoterra usando i civili come scudi umani e l’esercito israeliano commette crimini di guerra bombardando alla cieca. E proviamo a concentrarci sulla politica italiana, sempre tragica ma non seria: nessuno capisce quale sia la posizione del governo e del Pd. Accusare Meloni, Tajani e Crosetto di furia bellicista a rimorchio di Israele sarebbe ingiusto: finora sono stati prudenti, anche perché l’Italia è stata quasi sempre risparmiata dal terrorismo islamico grazie al suo equilibrio sul conflitto mediorientale. Ma allora perché il governo s’è astenuto sulla risoluzione dell’Assemblea Onu per un’“immediata tregua umanitaria”, mentre Usa e Israele han votato contro e Francia e Spagna a favore? Il pretesto che mancava la condanna di Hamas non regge: l’Onu aveva già condannato il pogrom del 7 ottobre e Guterres aveva già detto (nel discorso spacciato per filo-Hamas da Israele e dalla nostra stampa di destra, quindi anche da Rep) che “56 anni di soffocante occupazione israeliana non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas”. Ora il tema era tutt’altro: la rappresaglia-vendetta israeliana, che in tre settimane ha già seminato 7 mila morti (di cui 3 mila bambini).

Bene hanno fatto ieri Conte e la Schlein a condannare l’astensione del governo italiano. Ma l’altroieri si sono tenute in molte città d’Italia manifestazioni pacifiste, purtroppo poco partecipate, ma prive di ambiguità: condanna di Hamas, conferma del diritto di Israele a difendersi ma non a violare il diritto internazionale, e la stessa richiesta dell’Onu e del Papa: un cessate il fuoco umanitario. Il M5S e le sinistre hanno subito aderito. Il Pd invece si è intorcinato in un arabesco di posizioni che neppure nel Kamasutra: adesione ma forse senza Schlein, non-adesione ma con eventuale partecipazione di esponenti minori a “titolo personale”, adesione con partecipazione di esponenti minori a nome del partito ma sicuramente senza Schlein. Ieri poi 20 mila persone hanno sfilato a Roma per la Palestina. Intanto R. volava nella culla del Rinascimento saudita dall’amico Bin Salman con l’amico Jared Kushner (il genero di Donald Trump) per “ricostruire la pace di Abramo”: cioè quella schifezza di accordi separati ideati da Kushner e siglati nel 2020 da Trump e Netanyahu con i regimi di Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan, in attesa di farlo anche con l’Arabia Saudita, sempre sulla testa e sulla pelle dei palestinesi. Accordi che poi sono uno dei moventi del pogrom di Hamas: impedire la normalizzazione dei rapporti fra Riyad e Tel Aviv. Chiedo per un amico: ma il trumpiano, nonché putiniano e cinese, non era Conte?

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MA MI FACCIA IL PIACERE

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30 ottobre 2023

Libera stampa. “Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele. Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili o il lancio di razzi contro obiettivi civili… Gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione… Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas” (Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, 24.10). “Un’enormità, parole dall’innegabile sottinteso giustificazionista. Il mondo alle rovescia” (Paolo Mieli, Corriere della sera, 25.10). “L’Onu attacca Israele: ‘Hamas ha le sue ragioni’”, “Guterres giustifica Hamas” (Repubblica, 25.10). “Guterres ha descritto l’occupazione come causa dell’attacco di Hamas” (Domani, 25.10). “Vergogna Onu: Guterres difende Hamas e gli antisemiti” (Giornale, 25.10). “L’Onu dichiara guerra a Israele” (Libero, 25.10). “Da Guterres alibi ai terroristi” (Messaggero, 25.10). “Smascherare le Nazioni Unite contro Israele” (Foglio, 25.10). Vergogniamoci per loro.

Ha stato il Papa. “Né con Hamas né con Tsahal. Condannata la strage nei kibbutz, la Chiesa torna alla politica di sempre: ‘Basta occupazione israeliana’” (Foglio, 26.10). Che papa Francesco, oltreché un putiniano, sia pure un islamista radicale?

Ha stato Conte. “Eredità Conte: fondi italiani ai terroristi palestinesi” (Giornale, 24.10). E per il 7 ottobre il mullah al-Giuseppi non ha un alibi.

Ha stato Dibba. “Il mullah Dibba” (Libero, 26.10). “l mullah Dibba ci fa la fatwa” (Libero, 27.10). E niente, fanno tutto loro.

Mi scappa la lista. “L’‘imparziale’ collaboratore antisemita del Nyt a Gaza” (Luciano Capone, Foglio, 27.10). Certo che questo Hamas è proprio dappertutto: pure al New York Times.

È rimorto Putin. “Putin, giallo sul malore. ‘Un arresto cardiaco’. Il silenzio del Cremlino” (Messaggero, 24.10). L’hanno sepolto in gran segreto vicino al ceceno Kadyrov, al ministro Shoigu e all’ammiraglio Sokolov.

Gita premio. “Ombre russe sul voto Ue. Belloni oggi al Copasir. Gli Usa: ‘Roma avvisata’. Domani il Copasir volerà a Washington” (Repubblica, 24.10). Quindi le ombre russe sono americane.

Scoop e proot. “Gli ossessionati. Il Fatto quotidiano e Report non si arrendono e continuano a fare ‘inchieste giornalistiche’ su Silvio Berlusconi. Non c’è niente di nuovo” (Riformista, 24.10). Vuoi mettere invece gli scoop del Riformatorio.

Sgorbi. “Le consulenze vietate del sottosegretario Sgarbi: ‘Mica vivo sulla Luna’” (Repubblica, 25.10). Lì non l’hanno voluto.

Gli assenti hanno sempre torto. “La figlia di Borsellino: ‘Aprite questa agenda, capirete di chi non si fidava… Una rubrica telefonica’. Il numero di Scarpinato non c’è” (Unità, 25.10). Per capire se uno non si fida di qualcuno, basta prendergli la rubrica telefonica e segnarsi alcuni di miliardi di numeri mancanti. Geniale. Neppure Sherlock Holmes ci era arrivato.

Competenza specifica. “FdI scarica Sgarbi, niente giuria a Miss Italia” (Stampa, 27.10). E FdI diventa FdmI: Fratelli di Miss Italia.

Attaccati al tram. “Il tram in via Nazionale? Opera costosa e superata”, “Ambientalisti contro il Tva: ‘Tram? Mezzo superato’”, “Il tram in via Nazionale: ‘Ritiro dei rifiuti a rischio’” (Messaggero, 25, 27 e 28.10). Ma non è che per caso il Messaggero ha qualcosa a che fare con Francesco Gaetano Caltagirone e che Francesco Gaetano Caltagirone ha qualcosa a che fare con la metropolitana di Roma? Chiedo per un amico.

Le vere urgenze. “E sullo sfondo il nodo del Mes” (Stefano Folli, Repubblica, 27.10). Se ne sentiva giusto la mancanza.

Good news. “Gabriele Albertini: ‘Torno in Forza Italia perchè ora rivedo lo spirito delle origini’” (Libero, 27.10). Deve aver incrociato Formigoni.

Il titolo della settimana/1. “Marina scende in campo” (Giornale, 26.10). Si prega di avvertire Sallusti che il Giornale è passato agli Angelucci.

Il titolo della settimana/2. “Gualtieri: ‘Pazientate, Roma dopo i cantieri sarà una città moderna’” (Repubblica, 28.10). Uahahahahahah.

Il titolo della settimana/3. “Braccio di ferro con l’Ue: ‘L’Italia ratifichi il Mes o niente Patto di stabilità’” (Repubblica, 28.10). Ma questa una volta non si chiamava estorsione?

Il titolo della settimana/4. “Fidanza, eurodeputato FdI, patteggia (per corruzione, ndr): ‘Ho accettato a malincuore, ma non è stata corruzione’” (Libero, 28.10). Povera stella.

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IL GIURAMENTO DI IPOCRITA

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31 ottobre 2023

Se all’inizio della guerra Russia-Ucraina gli atlantisti de noantri mostrarono i primi sintomi di allergia alla logica, con l’ennesima guerra Hamas-Israele sembrano aver perduto il ben dell’intelletto. Non ci riferiamo ai dobermann da talk e da social che distribuiscono patenti di terrorismo e tagliagolismo a chiunque azzardi critiche al governo israeliano un po’ meno feroci di quelle della stampa israeliana. E nemmeno a quel minore del renzismo che twitta “Il Fatto è pieno di giornalisti antisemiti”, meritandosi una citazione in tribunale e una nel più vicino reparto psichiatrico. Ma a personaggi di ben altro spessore, abituati a studiare e a ragionare, anche per giungere a conclusioni diverse dalle nostre. Come Paolo Mieli, giornalista e storico. Già ci aveva sorpreso definendo “giustificazionista” di Hamas il discorso anti-giustificazionista di Guterres. Ma ieri, su La7, si è superato: “Vorrei fare una riflessione sugli ipocriti italiani. Quando fu invasa l’Ucraina, dicevano a Zelensky ‘ritirati perché la Russia è troppo più potente’. Ora nessuno dice al capo di Hamas di arrendersi. Sono propagandisti a cui non frega niente”. A parte il fatto che nessuno disse a Zelensky di ritirarsi (e da dove, visto che gli invasori erano i russi e lui era l’invaso?), semmai di negoziare un compromesso col nemico prima che il suo popolo subisse i guai peggiori che sta tuttora subendo, dopo il fallimento della controffensiva ucraina e l’inizio di quella russa, una domanda sorge spontanea: Mieli sta forse paragonando la “democrazia ucraina” al gruppo politico-terroristico Hamas? Nemmeno noi, che la democrazia ucraina non l’abbiamo mai granché notata, specie dopo la messa fuorilegge dei 12 partiti di opposizione e gli atti terroristici compiu oltre confine, ci saremmo sognati un accostamento così offensivo per Zelensky.

Di analogie fra le due guerre ce ne sono, ma molto diverse alla scombiccherata equazione mieliana. Israele, come la Russia, occupa territori non suoi. E l’Ucraina nega ai russofoni del Donbass l’autonomia promessa in due accordi a Minsk. Ma Israele e l’Ucraina sono nostri alleati, la Russia e Hamas no. E con gli alleati l’Occidente ha voce in capitolo e mezzi di pressione per farsi ascoltare, con i nemici no. Quindi i veri ipocriti e propagandisti sono quanti pretendono dal nemico Putin che si ritiri dalle regioni ucraine occupate, ma non pretendono dall’amico Zelensky che conceda l’autonomia al Donbass e un referendum per far decidere a quel popolo con chi vuole stare, né dall’amico Netanyahu che si ritiri dalla Cisgiordania, come Israele si impegnò a fare gradualmente nel 1993 a Oslo. Ecco, non vorremmo che Mieli, a furia di indagare sugli ipocriti e i propagandisti, scoprisse che il primo è lui.

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