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Dino

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SONO FORSE IO, MAESTRA?

l'editoriale di Marco Travaglio

01 ottobre 2023

La Meloni teme che i soliti noti stiano preparandole la forca, o la pira, dell’ennesimo governo tecnico. E i soliti noti, tramite i soliti giornaloni, rispondono fischiettando “Sono forse io, maestra?”, come Giuda Iscariota nell’ultima cena, quando Gesù confida ai Dodici che uno lo tradirà. Ma Giuda non aveva confidato a nessuno il suo inciucio con i sommi sacerdoti (anche se non aveva calcolato che con l’Onnisciente non c’era segreto che tenesse); invece il fan club dei tecnici non riesce a tenersi un cecio in bocca, infatti è da quest’estate che si eccita per il golpe bianco. È bastato che lo spirito guida Draghi e il suo valletto Enrico letta accettassero due strapuntini in Europa (scriveranno nientemeno che un rapporto sulla competitività e una relazione sul futuro del mercato unico: roba forte) per scatenare gridolini di giubilo e polluzioni fra i signorini grandi firme. L’udienza di Gentiloni, parlandone da sveglio, al Quirinale e il ritorno dello spread a 200 punti han fatto il resto nel nostro establishment, notoriamente allergico alla democrazia e alla sovranità popolare. Probabilmente non c’è una congiura, che fra l’altro non avrebbe i numeri, a meno che Meloni, Salvini e Conte non bràmino il suicidio (lo sport preferito del Pd). C’è solo l’ennesimo riflesso condizionato di un piccolo mondo antico che sfila da anni al proprio funerale come se il morto fosse un altro. E, ogni volta che il popolo bue sbaglia a votare, prima lo scomunica come “populista” o “sovranista”, poi cerca un banchiere o un tecnocrate pret à porter per ribaltare le elezioni.

Fanno tenerezza i Cavalieri Gedi di Stampubblica che irridono l’“ossessione complottista” meloniana dopo aver esaltato per 12 anni i Monti e i Draghi e pubblicato negli ultimi due mesi editoriali e retroscena sul ritorno di SuperMario con Agenda incorporata, o in alternativa su Fabio Panetta come “Draghi di destra” (l’originale è notoriamente di sinistra), ma anche su Gentiloni al posto della “grillina” e “massimalista” Schlein, sull’”Europa” e i “mercati” che agitano “lo spettro del governo tecnico” per stringere un bel “cordone di sicurezza intorno all’Italia”. Prima confessano, poi fanno gli gnorri. A scanso d’equivoci e per quel vale, i lettori sanno già dove troverebbero il Fatto se dall’empireo calasse un altro “tecnico”: all’opposizione solitaria, come nel 2011 quando Monti rimpiazzò il pessimo governo B. e nel 2021 quando Draghi subentrò all’ottimo governo Conte2. Anche il governo Meloni è pessimo, ma un anno fa ha avuto dagli elettori votanti la maggioranza in Parlamento. Se crolla, sono gli elettori che devono fare mea culpa e decidere chi metterci al posto. Il peggior governo politico è sempre meno peggio del miglior governo tecnico.

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MA MI FACCIA IL PIACERE

l'editoriale di Marco Travaglio

02 ottobre 2023

Porca slovacca. “Sorpresa in Slovacchia: il filo-russo Fico indietro. Salvo il fronte pro-Kiev. L’Europa tira un sospiro di sollievo: gli aiuti all’Ucraina non sono più a rischio” (Stampa, 1.10). “Slovacchia, europeisti avanti sui filorussi” (Corriere della sera, 1.10). “Slovacchia, testa a testa negli exit poll. Il progressista Simecka davanti di un soffio. Il candidato pro Bruxelles in vantaggio sull’ex premier filo-Putin Robert Fico” (Repubblica, 1.10). “Il tre volte premier Robert Fico, con simpatie putiniane e dichiaratamente contrario all’invio di armi all’Ucraina, ha vinto le elezioni in Slovacchia con il suo partito Smer-Ds ottenendo il 23% dei voti” (Ansa, 1.10). E niente: era fatta, poi è arrivato Putin con la Wagner e ha truccato le elezioni.

47 morto che parla. “Decapitata la flotta russa del Mar Mero: ‘Ucciso Sokolov’”, “Flotta del Mar Nero senza comandante” (Repubblica, 26.9). “Kiev: ucciso il capo della flotta russa’” (Corriere della sera, 26.9). “Kiev decapita la flotta russa: ‘Uccisi nel Mar Nero il comandante e 33 ufficiali” (Messaggero, 26.9). “Kiev: ucciso il capo della flotta di Mosca” (Stampa, 26.9). “Uccisi in 34, tra cui Sokolov” (Giornale, 26.9). “Russi colpiti e affondati in Crimea. Gran colpo ucraino” (Foglio, 26.9). “Sokolov ricompare in un video” (Corriere della sera, 27.9). “Riappare il russo Sokolov” (Stampa, 28.9). E niente, Sokolov era morto stecchito, poi è arrivato Putin con la Wagner e l’ha resuscitato.

Voce del verbo. “Iva Zanicchi: ‘Capisco Marta, ma torni al lavoro’” (Giornale, 27.9). “Il diktat di Paolo Berlusconi: ‘Basta lacrime, Fascina torni in Parlamento’” (Libero, 26.9). Pare che abbia già chiesto l’indirizzo.

Li Vannacci. “La pazza idea di Meloni: Vannacci a Caivano come commissario” (Domani, 27.9). Voi non siete normali.

Concordanze. “Il premier striglia Scholz: stupita dai fondi alle Ong” (Messaggero, 26.9). Il premier stupita è meravigliosi.

Vuoto a perdere. “Perdere l’Ucraina significherebbe perdere Taiwan” (Danilo Taino, Corriere della sera, 27.9). Ma perchè: l’Ucraina e Taiwan sono tue? E chi te le ha regalate?

Repetita juvant. “Napolitano, un presidente attento ai giovani” (Riformista, 27.9). “Napolitano, il Presidente attento ai giovani” (Riformista, 29.9). S’è rotto il disco?

Come citava. “Vi racconto chi era Giorgio Napolitano. Alcune letture vorrebbero trasformarlo in una sorta di icona liberale transitata a sinistra soltanto per sbaglio. Io che l’ho conosciuto voglio tranquillizzarvi: citava Marx e pure il Che” (Paolo Franchi, Unità, 30.9). Quando bestemmiava.

Il mondo al contrario. “Calunnie su Cav e mafia: ‘Baiardo va arrestato’. I giudici: non c’è prova che esista la foto Berlusconi-Graviano” (Stefano Zurlo, Giornale, 30.9). Infatti i giudici del Riesame di Firenze scrivono che “vi sono solidi elementi per affermare che Baiardo dica il falso laddove nega di averla mostrata a Massimo Giletti” e che lo stesso Baiardo, parlandone il 2 marzo 2023 col giornalista Paolo Mondani, spiegava l’incontro come finalizzato a mostrare la fotografia compromettente ed a far ricordare al fratello del presidente del Consiglio gli impegni a suo tempo presi coi fratelli Graviano e risultando così efficace da far intimorire Paolo Berlusconi”. Ma ai lettori del Giornale è meglio far credere il contrario: sono troppo impressionabili.

Famiglie. “La famiglia Borsellino accusa: i mandanti furono i suoi colleghi” (Piero Sansonetti, Unità, 28.9). Le famiglie Riina, Provenzano e Messina Denaro sentitamente ringraziano.

Sollevamenti nani. “Altro che golpe del 2011: Berlusconi era sollevato” (Aldo Cazzullo, Corriere della sera, 26.9). Dall’incarico.

Ha stato Conte. “Modello Conte: bimbi a rischio, vecchi soli” (Verità, 29.9). Hai capito Conte? Non governa più da due anni e mezzo e guarda che casini ti combina ancora.

Il titolo della settimana/1. “Da granaio ad arsenale: l’alleanza di Zelensky per fare dell’Ucraina un hub degli armamenti” (Repubblica, 1.10). Mettete dei cannoni nei vostri fiori.

Il titolo della settimana/2. “Meloni asfalta la Germania” (Libero, 26.9). Uahahahahah.

Il titolo della settimana/3. “Fake news, triste primato: il 33% delle bufale europee sulle bacheche italiane” (Messaggero, 28.9). “Italia, patria delle fake news” (Riformista, 29.9). Oppure il Messaggero e il Riformatorio si sopravvalutano un pochino.

Il titolo della settimana/4. “Il ripristino della ex Cirielli: “Meno processi prescritti’” (Messaggero, 30.9). Com’era quella delle fake news?

Il titolo della settimana/5. “L’Antimafia inizia a indagare su Mafia e appalti. Ma i 5S (e il Fatto) non la prendono bene e protestano” (Dubbio, 27.9). Guarda, non ci dormiamo la notte, proprio.

Il titolo della settimana/6. “Napolitano e il Risorgimento” (Stefano Folli, Repubblica, 27.9). Guarda che quello era Vittorio Emanuele II.

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BAGATELLE PER MASSACRI

l'editoriale di Marco Travaglio

04 ottobre 2023

Fra i mestieri usuranti che meritano una speciale indennità, il posto d’onore spetta a quello di giornalista-di-destra-sotto-un-governo-di-destra. Che, intendiamoci, presenta indubbi vantaggi: tipo poter scrivere qualunque cazzata senza perdere la reputazione (che, ove mai esistesse, sarebbe un handicap). Ma comporta anche fatiche ai limiti delle possibilità umane: tipo inventarsi ogni volta qualcosa per sp*****are i giudici che danno noia al governo. Inventare è la specialità della casa, il difficile è trovare una novità dopo trent’anni di berlusconismo. Prendete l’ultima giudice da linciare: Iolanda Apostolico, che ha disapplicato il decreto Cutro perché è scritto coi piedi e ignora le regole basilari del diritto europeo e italiano. Si poteva guardarle le gambe e, se avesse indossato calzini turchesi, dipingerla come una mezza matta. Purtroppo ci aveva già pensato Claudio Brachino per lapidare il giudice Raimondo Mesiano, che aveva osato condannare F*******t per lo scippo Mondadori. Per evitare l’accusa di plagio, sono tre giorni che i migliori picchiatori su piazza ravanano nei social della giudice, alla ricerca di un post che la ritragga mentre limona duro con uno scafista mentre quello le infila in tasca una mazzetta. Ma niente: solo like e condivisioni ad appelli pro Costituzione e contro chi la calpesta. Serve ben altro.

Si potrebbe dire che la Apostolico si era rifiutata di divulgare un fascicolo segreto perché era segreto e, per soprammercato, da giovane era fidanzata con un giornalista di Lotta Continua: ma la stampa di destra l’aveva già detto di Ilda Boccassini, che incredibilmente non era stata neppure arrestata. Si potrebbe dire che la giudice catanese porta le scarpe da jogging e la camicia aperta, alza il gomito, fa vita da nababba e gira in Mercedes, andava a cena con Franco Nero e parlava male di Berlusconi e pure di Wanna Marchi, e per giunta suo figlio telefonava a uno 007 arrestato. Ma anche questi sarebbero plagi piuttosto dozzinali, perché Giornale e Libero se li erano già inventati per sp*****are il giudice Antonio Esposito, presidente del collegio che nel 2013 aveva condannato B. in Cassazione per le frodi fiscali Mediaset. Poi si scoprì che il beone era astemio, che la sontuosa Mercedes era un ferrovecchio del 1971 con 300 mila km. acquistato nel ’77, che il figlio non era il suo ma quello di suo fratello e così via. Fermo restando che difficilmente la colpevolezza o l’innocenza dipende dalla biografia del giudice: semmai da quella dell’imputato. Ma vallo a spiegare a questi berluscloni che cercano altarini nella vita dei magistrati perché non sanno scrivere le leggi e non sanno leggere le ordinanze (infatti le chiamano “sentenze”) o, se le leggono, non le capiscono.

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OPPORSI: È UNA PAROLA

l'editoriale di Marco Travaglio

05 ottobre 2023

Anziché rinfacciarsi di non fare abbastanza opposizione, i partiti di opposizione dovrebbero mettersi d’accordo almeno su cosa significhi fare opposizione. Parevano averlo capito quest’estate, quando Pd, M5S, Avs e Azione lanciarono una proposta unitaria sul salario minimo legale di 9 euro l’ora, mettendo in imbarazzo la Meloni davanti ai suoi elettori. Poi, anziché imparare dal proprio successo e proseguire sulla stessa strada su altri temi trasversali, si sono incartati. Due esempi macroscopici: il contratto di servizio Rai e i fondi per la sanità.

Il contratto Stato-Rai lo vota la Vigilanza, dove le tre destre hanno i numeri per approvarselo da sole. La loro prima bozza era una barzelletta che pareva scritta a quattro mani da Vannacci e Giambruno. Dopo un mese di mediazioni, la presidente 5S Floridia e i relatori Nicita (Pd) e Lupi (centrodestra) sono riusciti a eliminare le peggiori schifezze e a inserire princìpi fondamentali, come giornalismo d’inchiesta, tutela dei minori, inclusione e accoglienza. Certo, non è il contratto che avrebbe scritto il centrosinistra: a cui però mancano i numeri. Fare opposizione è migliorare la Rai, o salire sull’Aventino e ululare alla luna mentre le destre la distruggono definitivamente? M5S e Azione hanno scelto la prima opzione. Pd e Avs (con i finti oppositori renziani) hanno preferito il “tanto peggio tanto meglio”, sconfessando il loro relatore e accusando Conte di inciuciare con la destra (che, detto da chi ha piazzato la moglie di Boccia su Rai3, fa sbudellare dal ridere).

Elly Schlein tuona contro i tagli del governo alla sanità pubblica. Ma il governo Draghi, diversamente dal Conte-2, le destinava risorse inferiori (in valori assoluti) o equivalenti (in rapporto al Pil) a quelle previste dal governo Meloni. Il che può mettere in serio imbarazzo l’ex ministro Speranza e lo stesso Pd, che Draghi lo idolatrava senza la benché minima critica. Giusto chiedere più soldi per la sanità, ma sparare cifre strappa-applausi (“Servono 20 miliardi sul diritto alla salute”) è un boomerang, se non si dice dove si pensa di trovarli. Il Fatto ha appena indicato una decina di misure che porterebbero 37 miliardi in più nelle casse dello Stato: perché il Pd non ne fa propria qualcuna? È vero che la nostra spesa sanitaria è sotto la media Ue-Ocse, ma è mal distribuita e troppo sperperata, polverizzata com’è in una miriade di centrali appaltanti regionali. Che aspettano le opposizioni a far tesoro della tragedia Covid e a proporre di sottrarre la sanità alle Regioni per ridarla allo Stato e farne finalmente un bene comune uguale per tutti? Se i sedicenti “governatori” del Pd strillano, pazienza: le loro smanie di soldi e potere non possono continuare a pagarle i malati.

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OPPORTUNITÀ E SCHEDATURE

l'editoriale di Marco Travaglio

06 ottobre 2023

Fa quasi ridere, in un Paese governato da chi non riconosce neppure la Costituzione e il Codice penale, ricordare a un giudice una questione di opportunità. Ma al posto della giudice Iolanda Apostolico, quando il marito attivista politico il 25 agosto 2018 scese in piazza a Catania contro Salvini che negava lo sbarco alla nave Diciotti carica di migranti, noi saremmo rimasti a casa. Nessuna norma penale o deontologica le vietava di manifestare con tanti cittadini comuni, ma lei era ed è un giudice e la sua presenza accanto a chi insultava il ministro dell’Interno poteva far dubitare non della sua imparzialità e indipendenza (che sono fatti interiori), ma della sua immagine di giudice imparziale e indipendente. E portare fascine di legna al rogo sempre acceso per le streghe moderne: i magistrati imparziali e indipendenti. Ciò premesso, la sua partecipazione (peraltro silenziosa) a un vecchio corteo non inficia minimamente la sua ordinanza che nega il trattenimento di tre migranti mandando in bestia il governo. Governo in cui siede, al ministero della Giustizia, un ex magistrato che, quando indossava la toga, andava a cena con Cesare Previti, imputato (e poi condannato) per corruzione di giudici in cambio di sentenze comprate: bell’esempio d’imparzialità e indipendenza. Ciò premesso, l’ordinanza Apostolico non riguarda Salvini; si fonda sul diritto costituzionale europeo e italiano; è stata imitata dal Tribunale di Firenze, dove non risultano manifestanti anti-Salvini; se il governo la impugnerà, deciderà la Cassazione.

Ma ora un fatto gravissimo dovrebbe allarmare tutti e mettere il resto in secondo piano: l’angolatura di ripresa del video della giudice in piazza coincide – dalle immagini rintracciate dal Fatto – con quella di un uomo armato di videocamera in mezzo alle forze di polizia (un agente in borghese?). Il fatto che sia saltato fuori a tempo di record in mano al vicepremier e ministro Salvini, si spiega in soli due modi: o un poliziotto, con occhio di lince e memoria di ferro, si è ricordato di quel filmato di cinque anni fa e ha avvisato Salvini; oppure in qualche ufficio di polizia o di servizi si schedano i partecipanti illustri alle manifestazioni e, quando il politico di turno domanda “abbiamo niente contro la Apostolico?”, c’è chi sa dove pescare in tempo reale. Non sarebbe la prima volta: l’archivio segreto e illecito di Pio Pompa, analista del Sismi del gen. Pollari, trovato nel 2006 in un ufficio riservato di via Nazionale 230, raccoglieva schedature di magistrati, giornalisti e politici sgraditi a B. e alla sua banda. Pompa è morto ma, se Salvini non rivelerà subito chi gli ha passato quel video, saremo autorizzati a pensare che abbia già un degno successore. E ad avere paura.

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FRA MOGLIE E MARITO

l'editoriale di Marco Travaglio

07 ottobre 2023

Lo so che ci sono cose più importanti. Tipo le corbellerie di Mattarella sulla guerra: “Se l’Ucraina cadesse assisteremmo a una deriva di aggressioni ad altri Paesi ai confini con la Russia e questo – come avvenne nel secolo scorso tra il 1938 e il ’39 – condurrebbe a un conflitto generale e devastante” (e quali prove ha che Putin intenda invadere l’Europa come Hitler, visto che ha invaso l’Ucraina per impedirne l’ingresso nella Nato e difendere i russofoni in Donbass bombardati per otto anni da Kiev? E con quali truppe lo farebbe, visto che mantiene appena le posizioni nelle 5 regioni ucraine occupate? E Mattarella è lo stesso vicepremier del governo che bombardò Belgrado?). O i volgari dossieraggi e linciaggi contro una giudice che manifesta per la Costituzione da parte di chi difende un generale che spara sulla Costituzione. O il voto del Pd con le destre per iscrivere nel Famedio di Milano il nome di B., pregiudicato e finanziatore della mafia, accanto ai Manzoni, Mazzini, Cattaneo, Toscanini, Quasimodo, Valiani, Gaber, Fo, Rame, Jannacci, Fracci, Merini, Raboni, Borrelli. Tipo l’ennesima sentenza che impone al Fatto di pagare uno sproposito a un politico decaduto e innominabile per qualche battuta “incontinente” senza aver mai scritto il falso.

Ma la notizia è troppo ghiotta per non parlarne: in Rai non si parla d’altro che del primo ospite del nuovo talk politico di Rai3 condotto da Nunzia De Girolamo (Avanti Popolo, in omaggio al popolo in delirio per un programma che costa 200 mila euro a puntata, contro gli 80 del predecessore CartaBianca). La De Girolamo non è omonima dell’ex deputata e ministra FI e Ncd, poi trasmigrata in zona Lega, nonché moglie del capogruppo Pd Francesco Boccia. È proprio lei. E si dice che il suo primo ospite, al debutto di martedì prossimo, sarà Boccia, che non è un omonimo di suo marito: è proprio lui. Che, per soprammercato, è pure il dirigente Pd incaricato da Schlein di seguire il dossier Rai (e, va detto, l’ha seguito egregiamente, se la sua signora ha conquistato la prima serata). Pare anche che i due, anziché risolvere gli eventuali problemi coniugali nel tinello di casa, litigheranno in studio per far parlare del programma (sennò, stretto fra Iene, Belve, Floris e Berlinguer, rischia di non filarselo nessuno). Noi non vogliamo credere che il numero due di Elly Schlein intenda davvero farsi intervistare da sua moglie, ma il suo silenzio col nostro cronista parla da sé. Forse non ha capito che, se litiga in diretta con Nunzia, fa ridere i polli esattamente come se ci fa pappa e ciccia: nel primo caso tutti penseranno a una sceneggiata, nel secondo invece pure. A proposito: con che faccia il Pd denuncerà il conflitto d’interessi di Giambruno con la fidanzata premier?

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IL SILENZIO DEGLI INDECENTI

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08 ottobre 2023

Come finirà lo scandalo del vecchio video pret à porter tirato fuori dopo cinque anni contro la giudice Apostolico è facile prevederlo, ora che salta fuori un provvidenziale carabiniere che dice di aver fatto tanti filmati e di averli passati a mezzo mondo, finchè arrivarono a Salvini o ad altri leghisti. Intanto un altro video ritrae un poliziotto che riprende. Se i pm vorranno verificare chi mente, verranno fermati sull’uscio di qualche ufficio parlamentare immune o sulla password di qualche telefonino insindacabile. Così passerà la linea della Meloni-gnorri: “Niente dossieraggi: la giudice era a un evento pubblico”. E chi lo nega? La questione è chi è in grado di tirar fuori nel 2023 un video del 2018 a colpo sicuro, sapendo che ritrae per pochi istanti una giudice a una manifestazione, nell’attimo esatto in cui serve al governo? O c’è un carabiniere con la memoria di tartaruga, l’occhio di lince e un grande amore per la Lega (e per la carriera), o c’è un archivio di filmati sui partecipanti illustri a manifestazioni, schedati e conservati senza motivo e contro la legge, visto che la giudice in piazza non commise reati né proferì verbo. Perciò la premier dovrebbe invitare il suo vice a riferire in Parlamento e, se lui non lo facesse come nel 2019 sul Russiagate, dovrebbe farlo lei come fece Conte. Ma per riportare lo scandalo nei giusti binari istituzionali servirebbe una stampa libera che premesse sul governo perché parli. Invece la stampa, salvo rare eccezioni, tace o acconsente o depista, spostando l’attenzione dalla luna al dito.

Commuove, in particolare, il silenzio dei “garantisti” in servizio permanente effettivo con sdegno selettivo: quelli che, appena un ladro di Stato viene beccato in un’intercettazione o in un’indagine, chiamano i caschi blu e invocano la privacy; ma, quando è il potere ad abusare dei propri poteri contro cittadini inermi, colpevoli di fare il proprio dovere o di esercitare un proprio diritto, se ne sbattono. Tacciono quando la polizia manganella gli studenti in corteo contro il governo. Insorgono contro una cittadina esemplare che filma un politico innominabile a colloquio con uno spione all’autogrill, manda tutto a Report col suo nome e il suo cognome e finisce linciata dal politico innominabile e dai suoi giornalisti preferiti come una spia al servizio di chissà chi, nonché indagata per reati ai confini della realtà, mentre il politico innominabile non dà alcuna spiegazione (anche perché nessuno gliela chiede). E tornano a tacere se un ministro e vicepremier sp*****a una giudice autrice di una sentenza a lui sgradita con un video di cui nessuno conosce la provenienza e il percorso. L’ennesima prova che il garantismo all’italiana è come il patriottismo per Samuel Johnson: “l’ultimo rifugio per le canaglie”.

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MA MI FACCIA - IL PIACERE

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09 ottobre 2023

Facce da Superbonus. “La ripresa non è di breve durata ed è dovuta ai bonus del governo Conte” (Giulio Tremonti, ex ministro FI, Tpi, 17.2.2022). “I bonus per l’edilizia oggi si presentano più come malus” (Giulio Tremonti, deputato FdI, Corriere della sera, 2.10.2023). Come passa il tempo.

The Genius. “Il club dei Friedkin trova l’accordo per lo sponsor-beffa. Roma-Riad, intesa da 5 miliardi all’anno. Gelo di Gualtieri: ‘I sauditi ci temono’” (Repubblica, 5.10). Da quando c’è lui sindaco, bin Salman dorme con la luce accesa.

Così impara. “’La vittoria di Fico è una brutta notizia. Pronti a espellerlo dai socialisti Ue” (Brando Benifei, capogruppo Pd al Parlamento europeo, Corriere della sera, 2.10). Lo cacciano perchè ha vinto. Se perdeva, lo iscrivevano al Pd, ad honorem.

Casa e bottega. “Tajani: ‘L’Italia è fortemente impegnata nella ricostruzione dell’Ucraina’” (Stampa, 3.10). Ma pure nella distruzione, così c’è più roba da ricostruire.

L’insospettabile. “Ho accettato l’incarico di formare un governo come mi ha chiesto il presidente della Repubblica. Sono molto onorato come italiano di questo incarico e naturalmente ce la metterò tutta” (Carlo Cottarelli, Ansa, 29.5.2018) “Ridicolo pensare a un esecutivo tecnico e incredibili le parole di Meloni su lista ministri. Io possibile premier? Non sono disponibile” (Carlo Cottarelli, Un giorno da pecora, Rai Radio1, 3.10.2023). Non sarebbe da lui.

Ha stato Putin/1. “Kiev, da Fico e Usa segnali pericolosi” (Nathalie Tocci, Stampa, 2.10). Passi per gli slovacchi, ma se diventano putiniani pure gli americani sono ca**i.

Ha stato Putin/2. “No-vax, filo-Putin e xenofobo: il lato oscuro di Elon Musk. Il proprietario di X e Tesla ha preso in giro Zelensky e sparato con un fucile in un video” (Annalisa Cuzzocrea, Stampa, 3.10). Oh no, e non l’hanno ancora arrestato?

Ha stato Putin/3. “L’ombra di Putin sul voto europeo” (Stefano Folli, Repubblica, 5.10). Massì, meglio portarsi avanti col lavoro: avrà stato Putin.

Lo chiamavano Terzietà/1. “Un magistrato deve apparire terzo prima di esserlo” (Stefano Dambruoso, magistrato, Libero, 6.10). Come lui che nel 2013 si fece eleggere in Scelta civica, diventò questore della Camera e ne fu sospeso per aver menato in piena aula una deputata 5Stelle. Così terzo da sembrare quarto.

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DAGLI AMICI LO GUARDI IDDIO.

l'editoriale di Marco Travaglio

10 ottobre 2023

Chi ama Israele perché è l’unica democrazia del Medio Oriente, per quanto sfigurata da 16 anni di governi Netanyahu (salvo brevi intervalli), dovrebbe leggere i suoi principali quotidiani e prendere esempio. Da quelli conservatori a quelli progressisti, dal Jerusalem Post ad Haaretz al Time of Israel, sono unanimi nel puntare il dito sull’unico vero responsabile politico della débâcle che ha regalato ad Hamas una vittoria insperata quanto inedita: “Bibi”, il premier più corrotto e più incapace, ma anche più longevo della storia dello Stato ebraico. Il “Mister Security” che non ha saputo garantire la sicurezza del suo Paese e del suo popolo, mettendo la firma sulla più cocente sconfitta dai tempi delle due guerre in Libano. Forse che la stampa israeliana se la fa con i terroristi di Hamas? O non sa distinguere fra aggressore e aggredito? O è al soldo dell’Iran? No, assolve semplicemente al primo dovere dell’informazione libera: raccontare, analizzare e commentare i fatti senza sconti per nessuno. E i fatti dicono che Israele ha tutto il diritto di esistere nei confini tracciati dall’Onu nel 1948; ha tutto il diritto di difendersi dalle aggressioni; merita tutta la solidarietà per le stragi e i sequestri di innocenti subiti nell’attacco terroristico di sabato. Ma oggi, trent’anni dopo gli accordi di Oslo fra Rabin e Arafat, non regge più la giustificazione dei territori occupati in attesa di restituirli in cambio del riconoscimento dai Paesi arabi, come Begin fece con Sadat a Camp David nel 1978. Anche perché, diversamente da allora, nessun vicino di Israele può (anche se volesse) distruggerlo. E della causa palestinese i Paesi arabi si sono sempre bellamente infischiati.

Persino un falco e un eroe di guerra come Ariel Sharon si era rassegnato all’idea dei due Stati, ritirandosi da Gaza e iniziando a farlo dalla Cisgiordania, e poi mollando la destra del Likud col fido Olmert per fondare il partito centrista Kadima. Non per bontà, filantropia o irenismo, ma per pragmatismo: non puoi convivere a lungo con milioni di palestinesi che ti odiano in casa tua o alla tua porta, reprimendoli dalla culla alla tomba e violando le risoluzioni Onu. I dati demografici sono impietosi: Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e il resto di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza altri 2. Ebrei e palestinesi ormai si equivalgono e, siccome i primi fanno molti più figli dei secondi, il sorpasso è vicino. Annettere la Cisgiordania significherebbe consegnare in pochi anni parlamento e governo ai rappresentanti degli arabi: la fine dello Stato ebraico. Sharon e Olmert l’avevano capito vent’anni fa. Netanyahu neppure oggi.

E non potendo risolvere il problema annettendo i territori o deportandone gli abitanti, l’ha rimosso. Tutto tattica e niente strategia, ha ripreso le colonizzazioni, mandando in partibus infidelium centinaia di esaltati, che poi necessitano di sforzi immani di sicurezza per proteggerli dalle rappresaglie dei palestinesi espropriati in Giudea e Samaria. Infatti è lì a Nord che stazionano ben 26 battaglioni dell’esercito, lasciando senza bussola i servizi segreti (un tempo i migliori del mondo) e sguarnito il fronte Sud: quello di Gaza, presidiato da due compagnie di reclute e dalla polizia locale, subito uccise o catturate da Hamas. I veri nemici di Bibi erano ben altri che Hamas, usata con cinismo e finta furbizia contro Abu Mazen e gli altri leader “moderati” dell’Autorità palestinese che cogestisce con Israele la Cisgiordania. Una miopia folle e scollegata dalla realtà che il premier aveva persino rivendicato dinanzi alla polizia che lo interrogava in uno dei suoi tre processi per corruzione: “Abbiamo dei vicini che sono nostri acerrimi nemici… Io mando loro messaggi in continuazione, li inganno, li destabilizzo e li colpisco in testa… È impossibile raggiungere un accordo con loro… ma noi controlliamo l’altezza delle fiamme”. Sabato le fiamme, com’era ovvio dopo 56 anni di occupazione, non hanno bruciato solo Netanyahu, ma centinaia di vite innocenti. E ora bruceranno quelle di tanti riservisti che finora manifestavano contro la sua guerra privata ai giudici e la sua milizia privata voluta dal truce ministro Ben Gvir, e ora partono per il fronte della vera guerra. Intanto Bibi, prima dell’ultimo capolinea, dovrà trattare anche ufficialmente con Hamas per riavere gli ostaggi.

Questi purtroppo sono i fatti, anche se il coro degli ultrà delle opposte tifoserie cerca di oscurare la metà sgradita con la stessa tecnica di moralismo selettivo seguito per la guerra fra Russia e Ucraina: lo schema fumettistico dei “buoni” e dei “cattivi” che pretende di cancellare la complessità di grovigli storici, politici, etnici e religiosi pluridecennali. L’ironia della storia è che chi negava la “complessità” della questione russo-ucraina ora la riscopre per quella israelo-palestinese. Per costoro la “pace giusta” in Ucraina scatta in automatico col ritiro delle truppe dai territori occupati. Ma su Israele la formula magica non vale: è tutto più “complesso”. E lo è (infatti compriamo il gas dai migliori amici di Hamas). Ma lo è anche per l’Ucraina. Dopo decenni di conflitti latenti o guerreggiati, chi vuole fermare la guerra mondiale a rate deve porsi il problema della sicurezza di tutti, non di qualcuno a scapito degli altri. E la sicurezza non si ottiene scomunicando, bombardando e bulleggiando, ma ragionando, parlando e trattando compromessi.

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MI SCAPPA LA LISTA

l'editoriale di Marco Travaglio

11 ottobre 2023

Come tutte le tragedie dell’umanità, anche la guerra israelo-palestinese diventa farsa appena varca la frontiera italiana. Il merito va a quella cricchetta di onanisti da Twitter che usa qualunque dramma mondiale per le sue batracomiomachie domestiche. Due anni fa, mentre gli americani scappavano da Kabul dopo vent’anni di occupazione criminale e inutile, cercavano qualcuno di famoso che stesse coi Talebani e, siccome non trovavano nessuno, inventavano “Italibani” mai esistiti. Poi, dopo l’attacco russo all’Ucraina, partirono a caccia di qualche personaggio illustre che lo giustificasse: invano. Ma trovarono comunque il modo di stilare liste di liste di putiniani immaginari: Orsini, il Fatto al gran completo, Caracciolo, Zagrebelsky, il Papa e altri noti cosacchi. Ultimamente le cose a Kiev andavano così bene che tutti scrivevano ciò che diceva Orsini senza versargli la Siae. E la falange atlantista era un po’ sulle sue, depressa dal flop della inoffensiva ucraina e dall’idea di dover dare presto del putiniano pure a Biden. Quand’ecco, provvidenziale, l’attacco di Hamas a Israele. Anche stavolta chi sperava di trovare uno straccio di vip schierato coi tagliagole rimane deluso. Ma nessun problema. Giornale e Libero sbattono in prima pagina Zaki perché dice di Netanyahu un po’ meno di ciò che scrive la stampa israeliana. Un tapino del Riformatorio delira sul “mefitico alito” di Orsini e Montanari e inventa il “silenzio di Conte” che invece parla dal primo giorno.

Ma il meglio, come sempre, viene da Repubblica. Folli è un po’ seccato perché nessun 5Stelle giustifica Hamas, ma pazienza: “tra i 5S c’è chi ha cominciato ad adombrare il tema” (qualunque cosa significhi). Merlo, essendo il re del fantasy, è esonerato dall’attinenza alla realtà: infatti riesce a scrivere restando serio che “l’antisemitismo nei 5Stelle è addirittura fondativo”. Non hanno mai detto nulla contro gli ebrei, ma il Merlo applica la logica del lupo con l’agnello: “Sei mesi fa hai detto male di me”; “Ma se non ero ancora nato!”; “Allora sarà stato tuo padre”. Per l’angolo del buonumore, il Foglio pubblica un penoso appello di Zelensky che, siccome non se lo fila più nessuno, si imbuca nella guerra altrui per dire che a Gaza c’entrano Putin e pure l’Iran (peccato che lo smentiscano persino gli Usa). Lo stesso Foglio smaschera l’“Intifada grillina” per gli “strani rapporti” dei 5 Stelle con “un’associazione vicina ai terroristi”. Perbacco. Le prove sono schiaccianti: due parlamentari 5S visitarono nientemeno che “i campi profughi palestinesi in Libano”; uno “ricevette in Senato il vicepresidente di una Onlus”; e un altro accolse “a Pratica di Mare una bimba di due anni, Talya, bisognosa di cure”. Quindi non si scappa: ha stato Conte.

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NON CI CASCHIAMO.

l'editoriale di Marco Travaglio

12 ottobre 2023

Per non farci capire e ragionare sulla nuova guerra, il Pensiero Unico sfodera un prontuario di slogan che all’apparenza non ammettono replica e costringono tutti a intrupparsi nella curva ultrà. È il giochino già sperimentato con gli obblighi vaccinali e la guerra russo-ucraina: il famoso pensiero “binario” (o di qua o di là, o con i buoni o con i cattivi), che in realtà è una monorotaia (o stai di qua o sei no vax, putiniano e pure terrorista).

1) “Hamas è come l’Isis”. Biden e le sue cheerleader nostrane depistano. Hamas è anche un gruppo terroristico, ma purtroppo non solo: è pure un esercito che, quando colpisce obiettivi militari, resiste legittimamente agli occupanti; e una forza politico-sociale che raccoglie consensi reali per aver portato nei territori occupati scuole, ospedali e altri servizi, oltreché per la corruzione dell’establishment palestinese (da Arafat ad Abu Mazen) e per la miopia israeliana. Hamas e Isis hanno tre soli punti in comune: l’appartenenza sunnita (pur col sostegno dell’Iran sciita); le mattanze di civili, inclusi donne e bambini; e i sostegni dagli attuali nemici. Se l’Isis la crearono Usa&C. buttando giù i sunniti di Saddam in Iraq per metter su gli sciiti, Hamas lo finanziano i nostri amici turchi, algerini, qatarini e sauditi (i “buoni” che ci vendono gas e petrolio contro il cattivo Putin); e l’ha foraggiato pure Netanyahu in funzione anti-Anp: l’ha ammesso lui stesso con la polizia e l’ha confermato Amihai Ayalon, ex capo dello Shin Bet. Tanto per cambiare, i “buoni” si sparano sui piedi.

2) “Sotto attacco sono tutte le democrazie”. Non potendo mettere anche Hamas sul conto di Putin (ci ha provato Zelensky, subito smentito da Israele), gli atlantisti de noantri sommano pere e patate per legittimare la “guerra di civiltà” contro Islam, Russia e Cina. Ma qui non ci sono democrazie da una parte e autocrazie dall’altra: è tutto mischiato. E Hamas è forte e attacca non perché Israele è l’unica democrazia mediorientale (e lo è: basta leggere i suoi giornali, molto più liberi dei nostri), ma perché in 16 anni di Era Netanyahu ha raso al suolo la formula “2 popoli 2 Stati”. La sola rispettosa del diritto internazionale e dell’autodeterminazione dei popoli (dai palestinesi al Donbass). Ora gli israeliani hanno tutto il diritto di entrare a Gaza e neutralizzare l’ala militare di Hamas colpevole della mattanza (sempreché sia rimasta lì ad aspettarli). Ma non di affamare e bombardare due milioni di civili. Lo dice Ayalon: “Prima di attaccare dovremmo dire che intendiamo dialogare con i palestinesi che vogliano discutere con noi dei due Stati. Se no la violenza aumenterà”. Almeno a questo dovrebbe servire il nuovo governo di unità nazionale: a non ritrovarsi presto in casa qualcosa di peggio persino di Hamas.

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RIMPIANGERE SHARON

l'editoriale di Marco Travaglio

13 ottobre 2023

Per dire quanto questa guerra sfugga ai cori da curve ultrà, basta un fatto: dopo le speranze accese dagli accordi di Oslo del 1993 e dalla storica decisione di Ariel Sharon di ritirare le truppe e i coloni (con la forza) da Gaza nel 2005, tutto precipitò a fine anno quando questi fu abbattuto da un ictus. È un paradosso, ma è così. La pace fra ebrei e palestinesi è morta nella culla insieme al più falco dei falchi israeliani: l’eroe indisciplinato delle guerre dei Sei Giorni (1967) e del Kippur (’73); il ministro della Difesa che nell’82 invase il Libano e non fermò il massacro di palestinesi perpetrato dai falangisti cristiano-maroniti a Sabra e Chatila; il capo della destra Likud che nel 2000 passeggiò con la scorta armata sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, scatenando la seconda Intifada. Solo un premier come lui poteva far digerire a Israele l’addio a Gaza. Così come solo il falco Begin, nel 1978, poteva far ingoiare la pace a Camp David con l’Egitto di Sadat.

Begin e Sharon erano due ex militari con le mani insanguinate, ma anche un cervello fuori dal comune. E, quando la Storia chiamò, seppero diventare statisti: guardare oltre l’oggi pensando alle generazioni future. L’uno chiuse il fronte egiziano, pronto alla pace anche con Giordania, Siria e Libano se i tre vicini avessero voluto. L’altro mosse i primi passi per chiudere il fronte palestinese, sposando la linea che Rabin (altro ex generale, ucciso nel ’95 da un ebreo fanatico) e Peres (senza passato militare, sempre sospettato di mollezza) avevano tracciato a Oslo con Arafat: due popoli, due Stati. Non lo fece per buonismo, ma per lungimiranza: presto i palestinesi – in Israele e nei territori occupati – avrebbero superato gli ebrei; e l’occupazione militare non poteva durare in eterno senza minare la sicurezza, anzi la sopravvivenza dello Stato. Mentre lasciava Gaza, Sharon abbandonò anche il Likud per fondare il partito centrista Kadima (“Avanti”), a cui subito aderì l’ex avversario laburista Peres, che di lì a poco divenne capo dello Stato. Poi l’ictus di Sharon spezzò la strana coppia – pugno di ferro e guanto di velluto – che avrebbe accompagnato Israele nella traversata nel deserto. E poco dopo iniziò l’èra Netanyahu, il leader del Likud divenuto premier nel ’96 contestando gli accordi di Oslo, tornato al governo con Sharon, per poi dimettersi da ministro in polemica proprio sul ritiro da Gaza. Dal 2009, salvo brevi intervalli, questo politicante ottuso e corrotto ha governato Israele con la destra più becera, illudendo se stesso e i suoi di poter vivere spensieratamente a prescindere dalla questione palestinese. Sabato la ferocia di Hamas ha presentato il conto a un Paese che da un bel po’ non ha più statisti ed è costretto a rimpiangere Ariel Sharon.

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COME TUTTO COMINCIÒ

l'editoriale di Marco Travaglio

14 ottobre 2023

All’alba del 14 maggio 1948 il sole picchia forte su Tel Aviv, mentre un ometto polacco canuto e commosso si alza in piedi e dà l’annuncio che tutti aspettano. Si chiama Micha Berdichevsky, ma tutti lo chiamano David Ben Gurion, detto anche “il figlio del leone”. È il capo del governo provvisorio di Israele. Parla scarno, ma solenne: “Proclamo la fondazione nazionale dello Stato ebraico indipendente di Palestina, che si chiamerà Israele”. Pochi minuti prima, l’ultimo soldato inglese ha lasciato il Paese, ponendo fine al mandato di Sua Maestà Britannica sulla Palestina, la lingua di terra stretta fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, spartita l’anno prima dall’Onu con la risoluzione numero 181 in due Stati: uno ebraico, l’altro arabo. Mentre Ben Gurion viene sommerso dagli applausi, qualcuno tra i più anziani ricorda la profezia lanciata mezzo secolo prima dal padre del sionismo, il giornalista ungherese Theodor Herzl: “Oggi la gente riderebbe se annunciassi che ho fondato lo Stato ebraico. Ma forse, fra cinquant’anni, mi darete ragione”.

“A morte gli ebrei!”. A Parigi, nel gennaio del 1895, Herzl ha visto degradare in piazza un ufficiale ebreo d’artiglieria, Alfred Dreyfus, condannato per alto tradimento su false accuse, tra la folla che urla “A morte gli ebrei!”. E, sconvolto per quel rigurgito di antisemitismo nel cuore d’Europa, ha scritto un libriccino ben oltre i limiti della follia: Lo Stato ebraico. Nel 1897 presiede a Basilea il primo congresso mondiale sionista. E le sue parole accendono la speranza in decine di migliaia di ebrei, soprattutto russi, in fuga dai pogrom: gli stermini di massa ispirati dalla polizia zarista. Negli ultimi vent’anni del secolo, un milione di israeliti fuggono dalla Russia negli Stati Uniti. Poche centinaia scelgono la via più difficile verso la terra dei loro padri, la Palestina. Qui, nel XIX secolo, gli ebrei sono ridotti a un villaggio di Asterix di 25 mila anime, affogate fra 450 mila arabi. Dalla fine dell’antico Stato ebraico con la conquista romana di Tito nel 70 d. C., non hanno visto che dominazioni straniere: bizantini, arabi, crociati, mamelucchi, turchi ottomani. In 17 secoli di “diaspora”, il popolo ebraico si è disperso in ogni angolo di mondo, ma non ha mai perso la speranza. Ogni anno, a ogni cena pasquale, ogni ebreo osservante ha rinnovato la promessa: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.

La svolta arriva a Natale del 1901. Il 5° congresso sionista di Basilea decide di distribuire a tutti gli ebrei del mondo un salvadanaio di latta bianco e azzurro. L’anno seguente, con i risparmi raccolti, nasce il Fondo Nazionale Ebraico per acquistare terreni in Palestina e ospitarvi i primi insediamenti.

Quelle messe in vendita dai grandi feudatari arabi sono terre di scarto: incolte e desertiche, o malsane e paludose, per giunta cedute a prezzi esorbitanti. Nascono così, tra mille difficoltà, i primi kibbutz, comunità agricole a gestione collettivistica, molto vicine agli ideali del socialismo. In pochi anni deserti e paludi si trasformano in agrumeti e campi coltivati. Attirando nuove e continue ondate migratorie, anche sulla spinta dei nuovi pogrom nell’Europa centro-orientale. La popolazione ebraica, nel 1914, è di 85 mila unità, nel 1923 di 120 mila, nel 1928 di 160 mila. Poi, dal 1932 al ’38, il grande esodo degli “indesiderati” dalla Germania hitleriana. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, gli ebrei di Palestina raggiungono quota 400 mila.

Balfour e il Focolaio. Sconfitto nel Primo conflitto mondiale, l’Impero ottomano si è sbriciolato e la Palestina è passata all’Impero britannico, che fa sperare gli ebrei. Nel 1917 il ministro degli Esteri, Arthur James Balfour, rilascia una celebre dichiarazione: “Il Regno Unito vede con favore la fondazione in Palestina di un Focolare nazionale per il popolo ebraico”. Poi però sono soltanto delusioni. Nel 1939 Londra pubblica un Libro Bianco che limita severamente l’immigrazione ebraica, impedendo a migliaia di ebrei di sfuggire alla persecuzione nazista. Gli ebrei di Palestina si schierano comunque in guerra a fianco degl’inglesi contro i tedeschi. Ma nel 1946 la tensione è di nuovo all’acme. Navi cariche di profughi scampati ai lager si presentano sulle coste palestinesi e vengono ricacciate indietro dalle autorità britanniche. Per rappresaglia, il 22 luglio l’Irgun Zwei Leumi, formazione paramilitare sionista, fa saltare in aria un’ala del King David Hotel, sede del quartier generale inglese: 90 morti. Il comandante della spedizione è Menachem Begin, futuro premier d’Israele e premio Nobel per la Pace. Poi finalmente il 2 aprile 1947, Londra annuncia il ritiro dalla Palestina entro due mesi.

L’Onu e i due Stati. Alle Nazioni Unite si inizia a discutere della spartizione della Palestina cisgiordana in due Stati. Anche l’ambasciatore sovietico Andrej Gromyko si dice favorevole. E alla fine i Sì sono 33, contro soli 13 No. Lo Stato ebraico comprenderà il deserto del Negev, la fascia costiera centro-settentrionale e la Galilea orientale: complessivamente il 55% del territorio, dove vivono 500 mila ebrei e 497 mila arabi. Lo Stato arabo avrà il restante 45%, con la parte centrale della Palestina, più la striscia di Gaza e la fascia sottostante tra il Negev e il Sinai, dove risiedono 725 mila arabi e 10 mila ebrei. E Gerusalemme? “Zona internazionale” sotto l’egida dell’Onu. Gli inglesi, prima di andarsene, fanno un ultimo dispetto a Israele, permettendo che il grosso delle loro armi e munizioni passi agli arabi. I quali però, aizzati dagli Stati “amici”, non accettano la risoluzione Onu. Scioperi, devastazioni, incursioni armate, massacri di ebrei. Poi, nei primi mesi del 1948, un “esercito di liberazione arabo” di 5 mila uomini attacca Israele e in pochi giorni isola Gerusalemme, il Negev e la Galilea dai restanti territori ebraici. Ma in aprile gli ebrei riprendono il controllo delle principali città, da cui – in parte spontaneamente e in parte spintaneamente – fuggono in massa le popolazioni arabe.

Battesimo di sangue. Rieccoci a Gerusalemme sotto il sole cocente di quel 14 maggio 1948. Il battesimo di Israele si celebra con una breve e frugale assemblea in una saletta del museo di Tel Aviv. Tutto in pochi minuti: il discorso di Ben Gurion e la firma di una pergamena con la dichiarazione d’indipendenza. Poi tutti in strada per un corteo festoso: in prima fila, al fianco di Ben Gurion, ci sono Golda Meir, Levy Eshkol, Yitzhak Rabin e altri padri fondatori che si alterneranno alla guida del Paese per oltre 40 anni. Piangono, ridono, si abbracciano con la folla in delirio che intona l’Halikyah (“speranza”): l’inno ebraico, più simile a una preghiera che a una marcia. Lo Stato di Israele è nato, anzi è rinato. È l’unica democrazia del Medio Oriente e viene subito riconosciuta, tra gli altri, dall’Urss e dagli Usa. Ma non c’è tempo per festeggiare. È un battesimo di sangue.

Mentre ancora Ben Gurion sta parlando, i sei eserciti della Lega Araba – Egitto, Libano, Siria, Transgiordania, Iraq e Arabia Saudita – muovono all’attacco da ogni punto cardinale per “cancellare dalla faccia della terra il cosiddetto Stato d’Israele”. L’Occidente solidarizza a parole, ma non muove un dito per difendere la risoluzione Onu del 1947. Anche l’Urss condanna l’invasione (la Pravda, da Mosca, parla di “aggressione araba contro Israele” e difende “il diritto degli ebrei a costituirsi un loro Stato indipendente; l’Unità si accoda). Ma lì si ferma. Israele deve imparare subito a combattere da solo, a mani nude. Tante mani, però: l’esodo del dopoguerra dall’Europa ha portato nella terra degli avi oltre 200 mila ebrei, scampati ai lager nazisti e ai pogrom russi, forzando il blocco britannico e aggiungendosi ai 600 mila che già vi risiedevano. Un’iniezione di forze e di intelligenze fresche che fa di Israele il Paese col più alto tasso di laureati, specialisti e tecnici del mondo. La loro competenza, capacità organizzativa e volontà di sopravvivenza diventano l’arma in più del neonato esercito Haganah (Difesa), capitanato da ufficiali giovani e agguerriti. Uno su tutti: il 33enne Moshe Dayan. Gli uomini non mancano. Scarseggiano però i quadri militari e gli armamenti: soprattutto l’artiglieria (pochissimi cannoni), i mezzi corazzati e l’aeronautica (una trentina di vecchi aerei incollati con lo sputo), perfino le uniformi. Non basta l’esperienza di due corpi speciali che affiancano le truppe regolari: il Lehi e l’Irgun, specializzati in terrorismo e antiterrorismo negli anni del mandato britannico e delle imboscate arabe. Troppo poco, almeno sulla carta, per fronteggiare l’esercito egiziano, la Legione Araba transgiordana guidata dal mitico Glubb Pascià, le quattro divisioni siriane e irachene e un corpo di volontari libanesi e sauditi: 150 mila uomini con 800 cannoni, 120 carri armati, 80 autoblindo e 150 aerei. Davide contro Golia.

La prima guerra. Le prime ore di combattimenti, per Israele, sembrano l’inizio della fine. Le truppe egiziane, da Sud, affondano come il coltello caldo nel burro e raggiungono le porte di Tel Aviv. Gli altri eserciti, da Nord, puntano su Gerusalemme e sul porto petrolifero di Haifa. L’Onu però impone una tregua di sei settimane. E quando gli arabi la violano, ripartendo all’offensiva dopo un mese, non hanno più di fronte l’Armata Brancaleone raccogliticcia e male in arnese dei primi giorni. In quel breve lasso di tempo Israele è riuscito a mettere in piedi un miracolo di esercito e anche a procurarsi qualche arma pesante e qualche aereo in più, mentre migliaia di volontari – ebrei e non – sono sopraggiunti dai campi di battaglia di mezza Europa per dare una mano.

Gli egiziani vengono travolti sul fronte Sud da un blitz ribattezzato col nome biblico “Operazione Dieci Piaghe”. E a Nord gli altri eserciti arabi sono colti di sorpresa. Gli Spitfire israeliani, residuati bellici comprati al mercato dell’usato, sorvolano e bombardano indisturbati Damasco e Amman. E i bazooka con la stella di David distruggono la metà dei carri armati nemici. L’Onu ordina una seconda tregua e nomina mediatore il conte Folke Bernadotte, un diplomatico e filantropo svedese nipote di re Gustavo IV. Mediatore si fa per dire: impone altre due tregue, ma parteggia apertamente per gli arabi. Di lui si occupa la banda Stern, organizzazione paramilitare sionista di estrema destra dove milita il futuro premier Yitzhak Shamir: il conte viene assassinato il 17 settembre a Gerusalemme. La tregua salta e la guerra ricomincia. L’Haganah affronta separatamente gli eserciti arabi e li sbaraglia l’uno dopo l’altro.

La prima guerra arabo-israeliana si conclude alla fine del 1948. Israele non solo ha riconquistato le posizioni di partenza, ma si è ingrandito di oltre un terzo, conquistando Gaza, l’intero Negev e la Galilea occidentale. Il bilancio delle vittime è pesante: 6 mila morti ebrei (di cui 2 mila civili) e 10 mila arabi. Poi c’è l’esodo (in arabo nakba, “catastrofe”) di 711 mila profughi palestinesi musulmani e cristiani che – cacciati dalle proprie case o spinti dagli orrori della guerra – lasciano Israele e si rifugiano in Transgiordania e nella West Bank (la Cisgiordania formata da Gerusalemme Est, Giudea e Samaria). La nakba apre la piaga purulenta e mai sanata dei campi profughi per molti rifugiati e loro discendenti (censiti nel 2015 dall’Onu in 5.149.742, sparsi fra Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano). Anche perché, nel dicembre del 1948, l’Onu approva la risoluzione 194 che consente “ai rifugiati che lo vogliano di tornare alle proprie case e vivere in pace coi loro vicini” e promette “indennizzi per le proprietà di quanti scelgano di non tornare”, ma a patto che arabi e israeliani siglino un trattato di pace. Cosa che non avverrà mai, o troppo tardi, per il rifiuto degli Stati arabi di riconoscere Israele. In parallelo, 600 mila profughi ebrei abbandonano le loro case nei Paesi arabi e trovano riparo in Israele.

Nel febbraio del 1949, dopo la Conferenza di Rodi, gli arabi sconfitti firmano con Israele, ciascuno per suo conto, degli armistizi che di fatto gli riconoscono la sovranità sui territori assegnati dall’Onu nel 1947, più una piccola parte di quelli appena conquistati: una porzione di Galilea, subito annessa da Israele. Che si ritira dagli altri territori occupati: la striscia di Gaza viene occupata militarmente dall’Egitto e la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Transgiordania (d’ora in poi Giordania). Così neppure ora i palestinesi e i loro presunti alleati arabi danno vita allo Stato di Palestina. Anzi, rinnegano gli armistizi appena siglati, pronti a tornare all’attacco per cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, usando i palestinesi nei campi profughi come scudi umani e armi di propaganda.

La crisi di Suez. Nel 1955 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il generale che tre anni prima ha rovesciato re Farouk, assume il controllo del Canale di Suez scippandolo al Regno Unito. Londra interrompe i rifornimenti di armi e i finanziamenti per la diga di Assuan e Nasser, per tutta risposta, nel 1956 nazionalizza il Canale, lo chiude alle navi commerciali di Israele, si allea con l’Urss e avvia un poderoso piano di riarmo. Francia, Gran Bretagna e Israele intervengono militarmente, con l’appoggio Usa. È la seconda guerra arabo-israeliana. Fra il 29 ottobre e il 5 novembre, l’esercito di Nasser tracolla, mentre le truppe con la stella di Davide dilagano fino a Sharm-el-Sheik al comando di Moshe Dayan, il generale con la benda nera sull’occhio sinistro perduto nella Seconda guerra mondiale. Se a bloccarle non intervenisse l’Onu per ordine americano, arriverebbero al Cairo. Bilancio finale: mille caduti e 6 mila prigionieri egiziani; 180 morti e 4 prigionieri israeliani.

La tensione si placa per dieci anni, ma il fuoco cova sempre sotto la cenere, per la gran voglia di rivalsa dell’Egitto umiliato e per la Guerra fredda tra Usa e Urss, che giocano sullo scacchiere mediorientale una partita tutta loro.

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OCCUPATI: QUANDO E PERCHÉ

l'editoriale di Marco Travaglio

15 ottobre 2023

La guerra dei Sei Giorni dura quanto la creazione del mondo e scoppia per una serie incredibile di equivoci. Il 7 aprile 1967 il governo israeliano del pur mite presidente Levi Eshkol (che ha preso il posto di David Ben Gurion) risponde all’ennesimo attacco siriano dalle alture del Golan contro contadini e pescatori dell’Alta Galilea: sei Mig sovietici nuovi di zecca appena arrivati da Mosca a Damasco vengono abbattuti. Così anche la Siria – che ha iniziato a foraggiare al Fatah, l’organizzazione palestinese fondata da Yasser Arafat e protagonista di continui attacchi terroristici contro Israele – ha una gran sete di vendetta. Il 3 maggio re Hussein di Giordania, inviso alla Siria per il suo doppiogiochismo, firma un accordo militare con Nasser, pone il suo esercito (la mitica Legione Araba) sotto il comando egiziano e consente il rientro del capo dell’Olp Ahmed Shukeiri a Gerusalemme Est per riprendere la propaganda di annientamento d’Israele. L’Urss preme su Nasser perché solidarizzi con Damasco, con cui ha siglato nel novembre 1966 un patto di mutua assistenza militare. Nasser non è pronto a un’altra guerra (il meglio del suo esercito è impegnato nello Yemen) e nicchia. Ma Mosca lo imbottisce di fake news su un imminente attacco israeliano alla Siria. Nasser se la beve e si prepara allo scontro con la più classica delle provocazioni. Il 14 maggio, mentre Israele festeggia il 19° compleanno, ammassa truppe nel Sinai. In ossequio all’armistizio, il governo Eshkol evita di far sfilare i carri armati nella parata militare. Ma i sovietici convincono Nasser che è perché i mezzi corazzati israeliani sono già dislocati altrove, contro di lui. Così, in una settimana, le truppe egiziane nel Sinai salgono a 100 mila soldati e quasi mille carri armati.

Il 16 maggio l’Egitto chiede e ottiene il ritiro dei caschi blu dell’Onu che, dopo la guerra del 1956, fanno interposizione nel Sinai. Il 22 maggio Nasser annuncia il blocco navale allo stretto di Tiran, sul golfo di Aqaba, dove si affaccia il porto israeliano di Eilath, cruciale per i rifornimenti petroliferi a Tel Aviv. E precisa graziosamente che “la questione per i Paesi arabi non riguarda la chiusura del porto di Eilat, ma il totale annientamento dello Stato di Israele”. Non che voglia la guerra, anzi: le solite fonti diplomatiche farlocche gli assicurano che gli Usa fermeranno Israele. Ma non è vero. Washington, impegnata nella disastrosa guerra del Vietnam, ha altro a cui pensare.

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LA FASE ANALE

l'editoriale di Marco Travaglio

16 ottobre 2023

Finora Aldo Grasso svolgeva nel dibattito politico-medatico il ruolo che nell’ordine pubblico svolgono gli idranti: disperdere a viva forza chiunque si opponga a qualsiasi potere. Ma da ieri ha abbracciato una nuova e ancor più nobile missione: far regredire l’analisi della guerra israelo-palestinese all’infanzia, a metà strada fra la fase orale della lallazione e la fase anale, quando il bambino sembra parlare perché ripete sillabe di apparente senso compiuto: mamma, pappa o papà, cacca. Soprattutto cacca. Il Grasso è sinceramente sgomento dinanzi a un fenomeno per lui inedito e inquietante: l’esistenza di commentatori e analisti che sanno di cosa parlano e fanno il proprio mestiere. Più precisamente Santoro, Ovadia, Orsini e la Basile. Anziché sillabare “mamma” o “cacca”, i putribondi figuri argomentano, spiegano e interpretano i fatti di oggi alla luce delle cause storiche, purtroppo intrecciate, stratificate e – horribile dictu – complesse, cioè incompatibili col manicheismo infantile e cavernicolo bello-brutto/buono-cattivo e col tifo da curva ultrà Juve/Toro/Milan-Inter/Roma-Lazio (quello che ha portato quei geni di Repubblica a commissionare un sondaggio e a intitolarlo testualmente, restando seri: “La maggioranza solidarizza con Israele, ma il 18% con Hamas”, manco fosse un derby). Il Grasso li chiama “postillatori” perché dicono “sì, ma” o “però” e “tutte le altre avversative da talk show”. E il fatto che conoscano l’italiano oltre alla storia, analizzino cause, spieghino fenomeni, soppesino pro e contro, distribuiscano equamente ragioni e torti e – quel che è peggio – lo facciano “impunemente” senza essere arrestati su due piedi, li rende automaticamente colpevoli.

Basta poco, del resto, per sgamare la colonna italiana di Hamas: quell’“artificio retorico fra i più subdoli” (il “sì, ma”), quella “fallacia logica conosciuta col nome di ‘accumulo di postille’”, quel “grimaldello per appropriarsi impunemente dello spazio del giustificazionismo, dell’alibi, della ‘complessità’” che servono a un solo, bieco scopo: “negare la strage di Kfar Aza”. E, nientemeno, “intossicare il diritto di esistere di Ucraina e di Israele”. Il fatto che il Grasso, sulla prima pagina del Corriere, attribuisca a quattro persone molto più competenti di lui sulle guerre di Ucraina e di Gaza cose che non si sono mai sognate di dire né di pensare, anzi hanno finora sostenuto tesi puntualmente confermate dai fatti a differenza delle sue, fa sospettare che ignori le altre diciannove fallacie logiche codificate in letteratura, pur praticandole quasi tutte. Soprattutto una, la “teoria della montagna di m**da”: “Un idiota può produrre più m**da di quanta tu possa spalarne”.

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