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Dino

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NON RIDE PIÙ

l'editoriale di Marco Travaglio

30 giugno 2023

Giorgia Meloni è una romanaccia simpatica. Battuta pronta, risata contagiosa e un po’ di sana autoironia. Anche sulla statura non proprio slanciata, eterno cruccio dell’altro nano ancor più della calvizie (“Sono alto un metro e 71, cribbio!”). Ma, nelle ultime uscite pubbliche, di quella Giorgia non rimane neppure l’ombra. La sostituisce una donna truce, torva, astiosa, biliosa, minacciosa, in una permanente crisi di nervi. Non ride né sorride: ghigna e digrigna. Non parla: ruggisce. Non c’è più l’underdog che, dopo un’infanzia difficile e una carriera costruita con le sue mani, ce l’ha fatta. Ora c’è una capetta che fa la spavalda per nascondere l’insicurezza e attacca per difendersi da nemici immaginari. Come se fosse ancora lì col 4% a fare opposizione sola contro tutto e tutti. Invece è a Palazzo Chigi con un potere smisurato, il 99% dei media che canta le sue lodi e le opposizioni che balbettano (quando non la fiancheggiano). E il travestimento da San Sebastiano non suscita solidarietà, ma ilarità. Dalle praterie dell’opposizione solitaria alle strettoie del governo, dai voli della campagna elettorale all’atterraggio sulla realtà, c’è un bel salto. Che però non basta a spiegare una metamorfosi che può costarle cara. Ci dev’essere dell’altro.

Forse si rende conto di quanto sia scadente il personale politico di cui si circonda (e giustamente diffida). Forse in cuor suo soffre a fare o a subire tutto ciò che rinfacciava agli “altri” (migranti, accise, austerità, condoni, politiche anti-sociali e anti-legalitarie, riverenze a Usa e Ue, Mes, draghismo, Figliuolo, Panetta, scandali di ministri gaffeur o impresentabili). La “pacchia” che doveva finire per l’Ue è finita per lei. E questo suo primo luglio al governo lo ricorderà e lo ricorderemo tutti. Ci rammenta quello di un altro neo-premier che Montanelli immortalò sulla Voce nel luglio ’94, nei giorni del “Salvaladri”: “Uno strazio aggiuntivo di questi torridi giorni sono per me le apparizioni sul video del Cavaliere che, avendone a disposizione sei tra pubblici e privati, non perde occasione di abusarne… A opprimermi è il sorriso con cui Sua Presidenza accompagna le parole: tirato, stirato, studiato col consueto puntiglio cosmetico, ma ormai completamente estraneo a un volto non più bene ambrato come una volta, ma lucido di sudore. Non erano questi i sorrisi di Berlusconi quando non era ancora ‘il Cavaliere’. Anzi, quelli non erano nemmeno sorrisi, ma risate: belle, aperte, squillanti, a gola spiegata… Ecco perché mi fa tanto male vederlo sul video con quel sorriso fasullo. Quasi un ghigno, che non ricorda neanche da lontano la bella risata fresca e squillante del Silvio di Arcore, non ancora Cavaliere”. Era il ritratto di Silvio. Pare quello di Giorgia.


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L’IRA DEI MITI

l'editoriale di Marco Travaglio

01 luglio 2023

Non so se i nostri sgovernanti abbiano visto Cane di paglia, il il film del 1971 diretto da Sam Peckinpah e interpretato da Dustin Hoffmann. Ma temo di no. O, se l’han visto, non l’hanno capito. Altrimenti non continuerebbero a bastonare le persone perbene confidando nell’italica pazienza, che ormai sconfina nella rassegnazione. Ha cominciato la premier Meloni umiliando i contribuenti onesti chiamando le tasse “pizzo di Stato”, per giunta in Sicilia, dove per non pagare il pizzo alla mafia sono morti ammazzati Libero Grassi e altri martiri. Ha proseguito il Senato cancellando con l’insindacabilità il processo al ministro Salvini per gli insulti scagliati sui social contro Carola Rackete (“zecca tedesca”, “criminale”, “complice di scafisti e trafficanti”). Imputato per diffamazione aggravata, Salvini è stato sottratto al suo giudice col diniego dell’autorizzazione a procedere: 82 voti favorevoli (FdI, Lega, FI), 62 contrari (Pd, M5S, Avs) e la consueta astensione complice di Iv. Un abuso di potere incostituzionale: l’insindacabilità copre solo “le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni”, non gli insulti sparati fuori delle Camere contro cittadini indifesi. Che possono essere querelati da Salvini, ma non querelarlo.

Intanto il ministro di Disgrazia e Ingiustizia, Nordio, legalizza gli abusi di potere, radendo al suolo quel che restava dell’abuso d’ufficio, il reato più odioso che possa commettere un pubblico ufficiale contro i cittadini inermi: il favoritismo, la raccomandazione, il concorso truccato, il conflitto d’interessi per privilegiare parenti, amanti, amici e compari ai danni di chi ha più meriti e più titoli, ma non ha santi in paradiso. L’Aronne Piperno di turno, l’ebanista ebreo del Marchese del Grillo: “Aronne, tu lavori bene. Bella la boiserie, bello l’armadio, belle le cassapanche, bello tutto, bravo, grazie, adesso te ne poi anna’… Vuoi sapere la procedura? Io i soldi nun li caccio e te nun li becchi… Io nun te pago. Tu sei giudeo e i tuoi antenati falegnami hanno fabbricato la croce dove hanno inchiodato Nostro Signore: posso essere ancora un po’ incazzato pe’ ’sto fatto? Comunque, se credi di aver ragione, famme causa… E tu, amministratore, chiama i miei avvocati e dagli carta bianca per corrompere giudici, uditori, funzionari, testimoni… Voglio vedere se le ragioni di un plebeo morto de fame valgono più dei soprusi che può fare un marchese ricco e potente come me”. In Cane di paglia il pacifico e passivo David Sumner, che ha subìto senza reagire ogni sorta di angheria, alla fine si ribella e fa fuori tutti in un bagno di sangue. Non che la cosa possa ripetersi contro i soprusi di questo sgoverno: siamo in Italia. Ma sfidare l’ira dei miti non è mai una buona idea.

Foto dal web

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SGORBI QUOTIDIANI

l'editoriale di Marco Travaglio

02 luglio 2023

Noiose e immancabili come i consigli anti-caldo (bere molto, evitare le coperte in lana di roccia…) e le liste di putiniani della fu Repubblica, ma soprattutto tristi e umilianti sono le polemiche sui deliri di Sgarbi. Che l’altra sera, invitato al museo Maxxi dal presidente Giuli a parlare di non si sa cosa (non è mai un suo problema), ha espettorato il consueto assortimento di squisitezze, con l’aggiunta di un “cornuto!” a un anonimo tizio al cellulare, che lui per educazione non spegne mai. Siccome il giochino si ripete da una quarantina d’anni, cioè da quando l’allora giovane critico, invitato al Costanzo Show per spiegare dei quadri, diede della “stronza” a una prof e, anziché essere bandito da tutte le tv (come accadrebbe in qualunque Paese civile), ne diventò ospite fisso (come accade solo in Italia), è il caso di piantarla. O la si smette di invitare Sgarbi, o di indignarsi se poi fa Sgarbi. Anche perché lo chiamano apposta: sanno che è fuori controllo e non si domandano neppure più se ci è o ci fa (entrambe le cose). A furia di trovarlo “simpatico” (come una grattugia sulle ragadi) e “politicamente scorretto” (al contrario: oggi il vero anticonformista è l’educato), gli han concesso una franchigia che vale solo per lui: neppure un ultrà allo stadio potrebbe dire un decimo di ciò che dice lui senza finire al gabbio o al Daspo.

Lui invece è sempre in Parlamento, quasi sempre sottosegretario a Qualcosa, sindaco di Salemi (subito sciolto per mafia), Sutri e Arpino, prosindaco a Urbino, assessore a Viterbo, consigliere regionale in Lombardia, commissario a Codogno, presidente di Ferrara Arte, del Mart di Trento, del Mag di Riva del Garda, della Gypsotheca del Canova… Da una vita colleziona poltrone e stipendi pubblici e naturalmente, non essendo ubiquo, fa tutto malissimo. Fin da quando nel ’96 si beccò una condanna definitiva a 6 mesi e rotti per truffa ai Beni Culturali perché dieci anni prima doveva lavorare alle Soprintendenze venete, ma non vi metteva piede, grazie a certificati medici farlocchi e autodichiarazioni di malattie immaginarie – il “cimurro” (tipico dei cani), le crisi di starnuti e l’“allergia al matrimonio” – che gl’impedivano di lavorare in ufficio, ma non di condurre ogni sera Sgarbi quotidiani su Canale 5 vomitando insulti ai migliori pm d’Italia. Ogni puntata un processo per diffamazione (di qui la fame atavica di soldi), da cui si faceva poi salvare dalla Camera. Tranne quando toccava altri della Casta, come la vicepresidente Carfagna, gentilmente definita nel 2020 “Sorcagna, capra, cretina che si trova in Parlamento solo per essere stata in ginocchio davanti a Berlusconi”. I due all’epoca stavano nello stesso partito, FI. Poi lei se n’è andata e lui è stato ricandidato. Avercene.


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MA MI FACCIA IL PIACERE

l'editoriale di Marco Travaglio

03 luglio 2023

Degna sepoltura. “Schlein non può salvare la sinistra” (Fausto Bertinotti, Libero, 26.6). L’ha già seppellita lui.

Facce. “Risponderò su tutto. Sono 23 anni che faccio politica. La vede questa faccia? Ce l’ho sempre messa quindi non abbiate preoccupazioni” (Daniela Santanchè, ministra FdI del Turismo, 26.6). Ma è proprio quello il problema.

Lucidità. “Le risposte di Kuleba sono state impressionantemente lucide, puntuali e razionali. Era lo scontro fra una persona consapevole del suo ruolo nel corso di una tragedia e del suo compito di fronte al mondo, e due bravacci (Lucio Caracciolo e Marco Travaglio a Ottoemezzo, ndr) che cercano dio fargli perdere la pazienza per indurlo a un movimento sbagliato e farlo ruzzolare a terra. Fu una catastrofe per il loro cinismo” (Marco Taradash, Twitter, 30.6). Ha soltanto paragonato una guerra con centinaia di migliaia di morti alla finale di Champions League Milan-Liverpool. Ma, a parte questo, tutto lucido e tutto consapevole.

Cognomen omen/1. “Travaglio, Dibba, Santoro? Chi esce più con le ossa rotte dal golpe”, “Se l’Ucraina in tv batte Travaglio 5-0” (Giovanni Sallusti, Libero, 25 e 26.6). Chi pensava di aver visto tutto con Alessandro, non aveva ancora letto Giovanni.

Cognomen omen/2. “Tre lutti in 10 giorni e Travaglio sbarella”, “Marco Travaglio tre volte orfano: Berlusconi, Davigo e Putin…” (Corrado Ocone, Libero, 26.6). E pure l’Ocone.

Le centurie di Mieladamus. “Voi non lo vedete perchè siete ciechi, ma c’è la crescita di una persona: Elly Schlein. Si vede nei sondaggi, è sempre avantio al suo partito, lo trascina al 23 o 24 per cento mentre il partito sta al 20 o 21” (Paolo Mieli, Ottoemezzo, 30.6). “Si ferma l’effetto Schlein. La Schlein scende dal 34% di marzo al 26 e il Pd perde un punto in un mese dal 20,4 al 19,4” (Nando Pagnoncelli, Corriere della sera, 1.7). Cieco pure Pagnoncelli.

Miccichi? “Miccichè e la droga dello chef: ‘Se sniffo sono fatti miei. Non farò il test, è demagogia” (Stampa, 30.6). “L’ho usata in passato e lo dissi, ma ora non ho nulla da smentire” (Gianfranco Miccichè, deputato FI, Corriere della sera, 30.6). È un po’ sopra le righe, ma ha sempre un gran fiuto.

Fate la carità. “Cartabianca: il regno dei giornalisti del Fatto quotidiano” (Carlo Stagnaro, Riformista, 28.6). E Stagnaro niente, manco un invito a Rai Yoyo.

Troppo Fuortes. “La nomina del sovrintendente del San Carlo non può in alcun modo subire distorsioni, essere o apparire di parte, come invece le cronache cittadine e nazionali delle ultime settimane evidenziano in modo inequivocabile.. Data questa situazione, non ci sono a mio avviso le condizioni per ricoprire il ruolo di sovrintendente del Teatro San Carlo” (Carlo Fuortes, ad uscente della Rai, Ansa, 12.5). “Fuortes ci ripensa: andrà al San Carlo” (Stampa, 30.6). Quando si dice un uomo tutto d’un prezzo.

La netta differenza. “Fatto, ma che stai a di’? Paragonare Davigo a Falcone è un affronto alla memoria e alla verità” (Foglio, 29.6). “’Davigo come Falcone’, l’oltraggio del Fatto per salvare il pm che ha profanato la sua toga. Padellaro scivola su un paragone ardito: la storia dei due pm è antitetica” (Felice Manti, Giornale, 30.6). In effetti Davigo è ancora vivo.

La fu Unità. “Fermate Gratteri, è fuori controllo” (Tiziana Maiolo, Unità, 28.6). Che fa, gli spara?

Problemi di pallottoliere. “Sconto a Cospito: 23 anni” (Messaggero, 27.6). “Pena ridotta per l’anarchico Cospito. Condanna più lieve” (Libero, 27.6). Nel primo appello s’era preso 20 anni, ora solo 23.

Compiti per le vacanze. “Permettere ai russi di fuggire dalla Russia per indebolire il regime”, “Guardare negli occhi il macellaio”, “La minaccia russa a Zaporizhzhia è concreta, attrezziamoci” (Foglio, 29.6 e 1.7). Mo’ me li segno.

Il titolo della settimana/1. “Pd-5S, cercasi idee per la semialleanza” (Repubblica, 28.6). Più che altro, cercansi.

Il titolo della settimana/2. “Il padre del 14 enne che ‘sparò’ alla prof: ‘La denunceremo per danni morali. Dice che nostro figlio ha agito per visibilità, ma non è cui social. Lei invece ora è sempre in tv’” (Stampa, 2.7). Ah ecco, s’è fatta sparare per pavoneggiarsi.

Il titolo della settimana/3. “Processano Silvio anche dopo morto” (Libero, 29.6). “Ruby ter, è accanimento. Il Cav (assolto) è morto ma i pm fanno ricorso” (Giornale, 30.6). Forse perchè i 28 falsi testimoni prezzolati sono vivi.

Il titolo della settimana/4. “Berlusconi perseguitato anche nell’aldilà. Ruby ter, la Procura di Milano ricorre in Cassazione. Ma a dettare la linea ai pm è stato Travaglio: ha istigato le due toghe milanesi” (Tiziana Maiolo, Unità, 30.6). Ha stato io.

Il titolo della settimana/5. “La Wagner via dal fronte, Prigozhin non si piega” (Corriere della sera, 30.6). Che eroe.

Il titolo della settimana/6. “Italiano fermato a Mosca, è giallo” (Stampa, 28.6). Problemi di fegato?


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SPINGITORI DI LEADER

l'editoriale di Marco Travaglio

04 luglio 2023

Il nostro club giornalistico preferito, per le soddisfazioni che ci dà, è quello degli Spingitori di Leader per Insufficienza di Prove (Slip). Ne fanno parte i “colleghi” che si sentono stretti nel prosaico ruolo di cronisti, anche perché non hanno mai avuto una notizia. E preferiscono quello più affascinante di suggerire ai partiti chi è meglio che li guidi. Uno dei più attivi nel ramo è Francesco Verderami del Corriere, che di nuovi leader ne ha sfornati due in una settimana: Paolo Gentiloni per il Pd e Pier Silvio Berlusconi per FI. Figurarsi l’entusiasmo dei due prescelti per il sostegno di questo portafortuna, già celebre per aver lanciato Angelino Jolie e Giorgetti sui troni di FI e della Lega, con i risultati a tutti noti. Due baci della morte tuttora ineguagliati, se si escludono quelli di Rep al noto trascinatore di folle Pisapia come capo del centrosinistra dopo la fine prematura dell’altro puledro della scuderia agnellian- debenedettiana: Bin Rignan.

Cosa fa pensare al nostro spingitore che Pier Silvio accarezzi “la tentazione di raccogliere l’eredità politica” di B.? La “lettera inviata a Repubblica ” per “rivendicare di essere ‘figlio di mio padre’”. Noi ci saremmo preoccupati se avesse rivendicato di essere nipote, cognato, suocero, genero, zio o trisavolo di suo padre. Invece Verderami coglie nell’apparente ovvietà un sottinteso dalle conseguenze epocali. Se il figlio di suo padre si proclama figlio di suo padre, e tiene a farlo sapere con una lettera a Rep, c’è di sicuro qualcosa sotto: “La tentazione di sfidare i marosi della politica c’è. Anzi, ci sarebbe”. Infatti qualcuno (non si sa chi) gli ha sentito dire “mi piacerebbe” (non si sa cosa). E Verderami ha la traduzione: o “guidare il partito”, o “immaginarsi come una sorta di ‘tessera numero uno’ di FI”, o “puntare su Palazzo Chigi. E che ne sarebbe a quel punto dell’entente cordiale con Giorgia Meloni?”. Già, perché se Pier Silvio punta su Palazzo Chigi non ce n’è per nessuno, almeno a casa Verderami. Il quale, nell’attesa, ausculta la gente che “chiacchera (sic) nei corridoi di palazzo Berlaymont” e spera di portare Gentiloni, sempreché lo trovi sveglio, al posto di Elly Schlein, che lì “considerano solo una parentesi”. Il noto dormiente potrebbe essere nientemeno che il “federatore di un nuovo centrosinistra, capace di raccogliere il testimone di Prodi”. La cosa piace all’esercito dei “liberalriformisti”, che sarebbero poi Calenda, “al punto che uno dei suoi dirigenti (sempre Calenda: c’è solo lui, ndr) non esita a esporsi: ‘Se ci fosse Paolo, non avrei dubbi sulla scelta’”. Resterebbero da trovare gli elettori, di cui il letargico statista è sempre stato piuttosto a corto (alle primarie Pd per il sindaco di Roma, arrivò terzo su tre). Ma, con gli spingitori dello Slip, può farne tranquillamente a meno.


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L’UNDERCUCCIOLO

l 'editoriale di Marco Travagliio

05 luglio 2023

Tutto si può dire del governo, tranne che non badi al nostro buonumore. I ministri, a parte alcune macchiette, sono tristanzuoli, ma le nomine extra li controbilanciano ampiamente. Tipo quelle di due caratteristi del calibro di Figliuolo al dopo-alluvione (le disgrazie non vengono mai sole) e Brunetta al Cnel. Non siamo ai livelli di una Tina Pica o di un Tiberio Murgia, ma si fa quel che si può. Figliuolo è già partito per le Romagne, ma è ancora “senza portafoglio”: viaggia con mezzi propri, tenda da campeggio e pranzo al sacco. Brunetta s’è insediato al Cnel, l’ente inutile che lui – avendone fatto parte per dieci anni – definì nel 2016 “carrozzone costosissimo” e, per renderlo meno costoso, ha moltiplicato le poltronissime con relativi c**i (22 in più). È la sua sesta vita dopo quelle di: undercucciolo a Venezia (il padre era venditore ambulante di gondoete di plastica); consigliere economico di De Michelis e Craxi (col boom del debito pubblico); prof universitario a un passo dal Nobel (“L’avrei vinto, ma ha prevalso l’amore per la politica, però ho buone possibilità di diventare capo dello Stato”); ministro di B. che litiga con tutti, anche coi ministri di B. (leggendario il fuorionda di Tremonti che gli dà del “cretino”); vice-Migliore riciclato da Draghi.

Ora s’è arrampicato in cima al Cnel grazie all’eredità anticipata dell’amico Silvio, che ebbe modo di apprezzare le sue doti pedagogiche nel 2009. In piena tempesta ormonale, B. voleva candidare alle Europee una ventina di squinzie, subrettine e morte di fama che allietavano le sue serate senili, dopo dure gavette come meteorine di Fede, veline a Fornelli d’Italia e Guida al campionato, protagoniste di Ciccio Ciccio, Grande Fratello e Passion: erotismo per le donne, concorrenti a Miss Muretto e Miss Lituania, comparse di Centovetrine, troniste di Uomini e donne. Così allestì una “scuola di formazione” in sede per erudirle almeno sulla collocazione di Bruxelles e Strasburgo sul mappamondo. Corso intensivo serale di tre giorni all inclusive. In cattedra, oltre a Silvio, un corpo docente d’eccezione: Verdini, La Russa, Frattini, Quagliariello e Brunetta. Il quale raccontò tutto fiero al Giornale: “Sono esausto: quattro ore belle, serie e importanti di lezione. Ho illustrato i rapporti fra le diverse istituzioni Ue, ho parlato di bilanci e devolution verso l’alto e verso il basso”. Soprattutto il basso. Purtroppo Veronica lesse. E tuonò: “Ciarpame senza pudore per il divertimento dell’imperatore”. E B. dovette scandidare in blocco le discepole di Renatino. Una sera, in tv, Paolo Villaggio domandò a bruciapelo a Serena Dandini: “Ma Brunetta è un nome d’arte?”. Magari: lui ha sempre fatto tutto col suo nome e la sua faccia, senza timore di perdere né l’uno né l’altra.


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CRETINETTI

l'editoriale di Marco Travaglio

06 luglio 2023

Tutto ci aspettavamo dalla vita, fuorché di sentir parlare di odio (altrui) da una che gira da sempre col dito medio alzato e che, quando osavi trovare vagamente inopportuni i cargo di mignotte in casa B., ti dava del fr***o. Invece, nel Daniela Santanchè in Dimitri Kunz D’Asburgo Lorena Piast Bielitz Bielice Belluno Spalia Rasponi Spinelli Romano Show, è capitato anche questo. Insieme a una collezione di balle da Guinness, col contorno di interventi destro**i e renziani, ansiosi di ripulire le proprie vergogne con quelle della ministra. Madama Garnero ha pasticciato sulla sua veste di indagata, come se l’avesse scoperta dai giornali con grande stupore. Oh bella, e chi dovrebbe essere indagato nell’inchiesta per falsi in bilancio e bancarotta delle sue società: sua zia? Lei “giura” di non esserlo perché non ha ricevuto avvisi di garanzia, ma la seconda circostanza non esclude la prima; e perché il suo certificato dei carichi pendenti è vuoto, ma o è falso o è vecchio di almeno 5 mesi (l’iscrizione sua e di altri sul registro è di novembre ‘22, desegretata a febbraio ‘23). Motivo in più per dimettersi. In ogni caso, non doveva rispondere di eventuali reati (per appurarli occorrono grosso modo 10-15 anni), ma di condotte certe, eticamente indecenti e politicamente imbarazzanti. Non invenzioni “scandalistiche” del Fatto e di Report, ma fatti scandalosi documentati dalle carte delle società, dalle testimonianze dei dipendenti, dalla consulenza fallimentare e persino dalle sue parole di ieri. Fatti che partono dal 2016, quando era azionista n.1 e amministratrice del gruppo quotato Visibilia: altro che estranea. Tutta roba che, se fosse emersa su un 5S o un dem, avrebbe portato lei stessa a chiederne le dimissioni.

Il fatto poi che abbia “messo a disposizione il mio patrimonio” per tentare di tappare le voragini della sua brillante attività di “imprenditore” non è un beau geste caritatevole “per cui mi aspetterei un plauso”: è il tentativo disperato di evitare i fallimenti e almeno l’accusa di bancarotta. A meno che non le risulti un altro, oltre a lei, che diventa ministro e lo rimane essendo in debito con lo Stato che rappresenta (2,7 milioni che dichiara di non voler restituire), con fornitori strozzati, con dipendenti non pagati e con banche non rimborsate. La crisi dell’editoria la conosciamo bene, ma usarla per coprire il verminaio è roba da commedia all’italiana. Nel Vedovo, Alberto Sordi è anche lui un “imprenditore” che non azzecca un affare e inventa scuse puerili, tipo “tutta colpa degli inglesi che mi hanno chiuso il Canale di Suez. Ma come: prima me lo chiudete, poi me lo riaprite proprio mentre sto speculando sulla benzina?!”. Infatti la moglie, Franca Valeri, gli taglia i viveri e non lo chiama ministro. Ma “cretinetti”.


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COERENZI

l'editoriale di Marco Travaglio

07 luglio 2023

Per quanto fosse tecnicamente impossibile, Bin Rignan è riuscito a rendersi più ridicolo della Santanchè. Le sue lezioni di coerenza sono ancor più comiche di quelle di garantismo della Pitonessa. In Senato sedeva tronfio accanto al suo ultimo ventriloquo, tale Borghi, che declamava le richieste di dimissioni strillate da FdI contro i centrosinistri. E chiudeva col solito chiagni&fotti: voi cattivi volevate cacciare noi, ma noi buoni non vogliamo cacciare voi; anzi, ciascuno si fa i ca**i propri e nessuno chiede più le dimissioni di nessuno; una mano lava l’altra. Il povero Calenda, lì vicino, soffriva in silenzio: lo scandalo Visibilia è troppo persino per lui, ma la tenia che s’è infilato in pancia e gli sta mangiando tutto l’ha messo in minoranza sulla richiesta di dimissioni: robaccia “grillina”. O, per meglio dire, “renziana”. Già, perché il record di richieste di dimissioni non è né del M5S né di FdI: è suo.

Nel 2011, ancora sindaco di Firenze (per la gioia delle altre città), ululava che il bersaniano Penati, indagato per presunte tangenti, “deve rinunciare alla prescrizione e dimettersi da consigliere regionale”. Nel 2013 voleva sloggiare la Cancellieri, ministra di Letta beccata a trafficare per far scarcerare la figlia di Ligresti, ma non indagata: “Non bisogna aspettare un avviso di garanzia per dimettersi. Se fossi segretario Pd direi sì alla sfiducia”. Come il M5S. Quando il Viminale, retto (si fa per dire) da Alfano, fece deportare in Kazakistan Alma e Alua Shalabayeva, si associò alle mozioni di sfiducia di M5S e Sel contro il ministro non indagato: “Se sapeva, ha mentito ed è un piccolo problema. Se non sapeva, è anche peggio”. Sempre sotto Letta, chiese la testa delle ministre Idem (inquisita per una microevasione su una palestra) e De Girolamo (indagata per l’Asl di Benevento). E, divenuto segretario Pd e premier, fece dimettere i suoi ministri Lupi (non indagato per i regali di Incalza al figlio) e Guidi (non indagata per la norma caldeggiata dal fidanzato), i suoi sottosegretari Gentile (non indagato, ma accusato di pressioni su un giornale) e Barracciu (imputata nella Rimborsopoli sarda) e il sindaco veneziano Orsoni (indagato per il Mose). Richetti, inquisito nella Rimborsopoli emiliana, fu indotto a non candidarsi in Regione (poi fu prosciolto). E il sindaco romano Marino fu cacciato prim’ancora di essere indagato per le cene. “Per chi sbaglia non ci sono scappatoie: va stangato… Solo con l’adempimento con onore e disciplina di tutti e ciascuno, partendo da chi ha incarichi di governo fino al cittadino comune, cambieremo il Paese”, tuonava il grillino rignanese il 27.11.2014. Oggi dice agli altri: “Noi non siamo come voi”. Ma dovrebbe comprare una consonante: “Noi non siamo come noi”.


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STANNO TUTTI BENE

l'editoriale di Marco Travaglio

08 luglio 2023

Dice la Meloni: “Non pensino di farmi fare la fine di Berlusconi”. A parte che sfugge il soggetto del “non pensino”, non spiega quale sarebbe la “fine” di B. che lei non vuol fare: morire o allearsi con la Meloni?

Se invece qualche malato di mente l’ha convinta che esista una Spectre che pilota 9mila magistrati e sceglie i bersagli e le tempistiche, lo faccia visitare da uno bravo (a quella baggianata possono credere solo un B. e i due Matteo): l’indagine sui disastri del gruppo Santanchè dipende dal fatto che la Santanchè ha fatto disastri col suo gruppo; quella per stupro sul figlio di La Russa, dal fatto che una ragazza l’ha denunciato per stupro; quella su Delmastro per violazione di segreti, dal fatto che Delmastro ha spifferato dei segreti. Se di complotto si trattasse, sarebbe un autocomplotto.

La Santanchè ha mentito al Senato sostenendo di aver appreso di essere indagata il 5 luglio dal Domani. Peccato che la notizia fosse uscita il 3 novembre su Fatto, Corriere, Verità, Giornale (che se n’è scordato e cita un inesistente “avviso di garanzia”) e altre testate. Ma, visto come la Pitonessa s’è difesa finora, potrebbe persino risultare più convincente dichiarandosi consuocera di Mubarak.

La ministra pensava di usare La Russa come scudo umano per salvare la cadrega. Ma purtroppo lo scudo umano è subito venuto a mancare: non perché il figlio sia stato denunciato per stupro (è la parola della ragazza contro la sua e il padre non c’entra), ma perché ha trovato il modo di mettersi nei guai con queste testuali parole: “Dopo averlo a lungo interrogato, ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante”. L’indagine, appena iniziata (da lui), è già finita. E c’è pure la sentenza definitiva: assolto il figlio e condannata la ragazza, una poco di buono che “denuncia dopo 40 giorni”, una drogata che “aveva consumato cocaina” ergo il suo racconto “lascia oggettivamente molti dubbi” (ora le manca solo una citofonata di Salvini). Così, se la Procura non si accontentasse dell’indagine del padre dell’indagato e smentisse la sua sentenza, questi dovrebbe dimettersi da presidente del Senato per una vicenda in cui s’è cacciato da solo.

La destraccia che difende la ministra indagata (FdI, Lega, FI e Iv) ha approvato una commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione del Covid di Conte e Speranza, appena scagionati dai Tribunali dei ministri di Roma e Brescia. Processare gli imputati è roba da giustizialisti: infatti i garantisti processano gli assolti.

B. ha scritto nel Nuovo Testamento “30 milioni a Dell’Utri”. Aveva pochi giorni di vita, ma temeva la verità pure da morto. Che brutta vita e che brutta morte. Ma tranquilli, la Meloni non farà la sua fine: lei 30 milioni mica li ha.


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SCHIFORME A GRAPPOLO

l'editoriale di Marco Travaglio

09 luglio 2023

Unendo i puntini delle dichiarazioni destronze e degli spifferi delle “fonti del ministero” (più arcane delle fonti del Clitumno), si ottiene la Grande Riforma della Giustizia che l’Italia attende fremente da trent’anni e che sarà necessariamente modellata sui processi che investono e via via investiranno membri del governo e della maggioranza, inclusi congiunti e amici degli amici. È lo scotto da pagare alla scomparsa di B., che le leggi ad personam le calibrava su un c**o solo: il suo. Ora, nel berlusconismo senza B., i c**i da parare si moltiplicano e con essi le leggi ad personas, o ad Melones. Tutto più complicato, ma anche più divertente. S’era detto che i giudici vanno separati dai pm per evitare che i primi si “appiattiscano” sui secondi? Dipende. Se l’imputato fa parte del giro e il giudice si appiattisce sul pm per archiviare o assolvere, viva l’appiattimento: i due possono restare tranquillamente colleghi. Se invece il giudice si appiattisce sul pm per intercettare, arrestare, rinviare a giudizio o condannare, i due vanno subito separati. C’è poi il caso Delmastro, col pm che chiede l’archiviazione e il gip che ordina l’imputazione: tutto ciò, secondo le “fonti ministeriali” (lo pseudonimo di Nordio), è “irrazionale” e deve finire. Se il pm vuol salvare uno della banda, è dovere del gip appiattirsi su di lui: è quando il pm non vuole salvarlo che il gip non deve appiattirsi. Ma la Riforma metterà le cose a posto: tra pm e giudice, decide il giudice solo se conviene all’indagato; viceversa decide il pm e il giudice fa pippa.

Ma c’è pure il caso del pm buono, che non ha alcuna intenzione di disturbare i manovratori, costretto a indagarli da un dipendente o un fornitore non pagato o truffato che non si fa i ca**i suoi e li denuncia. Certo, alla fine chiederà di archiviare anche se ha vagonate di prove e il gip dovrà appiattirsi per legge. Ma intanto c’è la rottura delle indagini e dei giornali. Doppia ideona. I giornali saranno puniti con multe milionarie se pubblicano notizie vere (quelle false sono la specialità della casa). E le indagini saranno subappaltate ai congiunti degli indagati, che fra l’altro sono quelli che li conoscono meglio. Sui falsi in bilancio della Santanchè indagherà il falso principe Dimitri, e viceversa. E sul presunto stupro di Apache La Russa indagherà il padre, che infatti l’ha già interrogato e assolto, condannando la ragazza che l’ha denunciato. Così i pm potranno dedicarsi ai veri delitti: i rave party, gli spray con vernice lavabile, le vignette di Mannelli e Natangelo, o anche i reati contro la Pa, purché riguardino gli oppositori, meglio se “grillini”. I processi sono come le armi all’uranio impoverito e le bombe a grappolo: se le usa la Russia sono orrori da genocidi, se le usa l’Ucraina sono petali di rosa.


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MA MI FACCIA IL PIACERE

l'editoriale di Marco Travaglio

10 luglio 2023

Senza peli sulla Minzolingua. “Indagata la Santanchè per la sua società” (Giornale, 3.11.2022). “Fa impressione che sulla stampa è stata resa nota l’iscrizione sul registro degli indagati del ministro Santanchè, un provvedimento addirittura secretato di cui l’interessata era del tutto all’oscuro. La Procura perde il pelo ma non il vizio” (Augusto Minzolini, Giornale, 6.7). Fa impressione che il Giornale perde il pelo ma non il vizio: l’aveva informata otto mesi fa, ma lei purtroppo non legge il Giornale.

Il giureconsulto. “C’è l’articolo 54: ‘Servire lo Stato con onorabilità e con dignità’” (Francesco Paolo Sisto, FI, viceministro della Giustizia, 8.7). Posto che l’art. 54 della Costituzione pretende da chi ricopre cariche pubbliche “disciplina e onore”, il viceministro Sisto deve aver giurato su Topolino.

Smemoranda. “Sulla spinosa vicenda umana e politica di Ignazio La Russa interviene il Fatto… a gamba tesa e con pessimo gusto… La vignetta di Natangelo… A titolo di cronaca, a memoria non si ricordano vignette del Fatto nei giorni in cui il figlio di Beppe Grillo, Ciro, è stato accusato del medesimo reato” (Libero, 8.7). A titolo di cronaca, il Fatto dedicò al video di Grillo in difesa del figlio Ciro cinque vignette: di Natangelo, di Mannelli, di Vauro, di Mora e di Franzaroli.

Neuroni a grappolo. “Bombe a grappolo, bufera su Biden. Zelensky: ‘Non le useremo in Russia’” (Giornale, 9.7). Bravo genio, così ammazzi solo ucraini.

L’uva era acerba. “Mattatoio Bakhmut. Le truppe ucraine cercano di riprendersi il territorio perduto” (Francesca Mannocchi, Stampa, 3.7). “Le forze di Kiev non vogliono riconquistare città rase al suolo come Bakhmut” (Mannocchi, Stampa, 7.7). Chiedo per un amico: ma vogliono riprendersi Bakhmut o no?

Sovranisti in incognito. “Fazio in Rai ha sempre svolto il suo lavoro come pochissimi professionisti avrebbero saputo fare. Viene cacciato dalla Rai perché del suo spazio questa destra xenofoba ha bisogno… per imporre la propria egemonia” (Roberto Saviano, 14.5). “Da Sottile a Facci è occupazione sovranista. Assedio al fortino di Rai3” (Repubblica, 22.6). “TeleMeloni” (Stampa, 8.7). “Sorpresa Saviano, in onda da novembre su Rai3 con ‘Insider’” (Corriere della sera, 8.7). Oddio, sarà mica complice della destra xenofoba che vuole imporre la sua egemonia xenofoba con l’occupazione sovranista di TeleMeloni e l’assedio al fortino di Rai3?

Grasso che mente. “Del resto, è l’arma più volte usata dal M5S: fare la vittima, gridare al complotto dei magistrati” (Aldo Grasso, Corriere della sera, 9.7). Ah sì? E quando? E chi?

La parola per dirlo. “Giorgia Meloni non vuole andare alla guerra contro i giudici” (Corriere della sera, 9.7). Al massimo un’operazione speciale.

Parenzo1 a Parenzo2. “Alessandro Orsini, grande professore della Luiss” (David Parenzo, Zanzara, Radio24, 5.3. ’20). “Orsini è feccia intellettuale” (Parenzo, ibidem, 11.5. ’23). “Con chi non andrebbe a cena? ‘Con Orsini, non mi divertirei. Ha pure minacciato di querelarmi’” (Parenzo, Corriere della sera, 4.7). Ma come, non era un grande professore?

Accerchiata. “Nathalie Tocci: ‘Mediazione in autunno? Gli Usa vogliono la pace prima delle presidenziali’” (Messaggero, 3.7). E niente, stanno diventando putiniani pure loro.

Il reietto. “Alla mia età mi accontento di poco. Oggi mi basta sapere che le ospitate di Orsini, Travaglio, Di Battista e di tutti i tifosi di Putin non saranno più pagate con i soldi del mio abbonamento alla Rai” (Sebastiano Messina di Repubblica, Twitter, 4.7). Che tenero: non si potrebbe offrirgli un programmino su RaiGulp?

Radici. “Elkann: ‘Il gruppo ha profonde radici in Italia, proiettiamo la nostra storia nel futuro’” (Stampa, 5.7). Seguitando a pagare la tasse in Olanda.

Du’ spicci. “Dell’Utri, l’amico di una vita ricordato da B. nel testamento: ‘La mia vita non cambierà con i suoi trenta milioni’” (Giornale, 8.7). Che saranno mai.

Borsella Hoara. “Flavio, pensi che la destra stia difendendo poco Daniela?” (Hoara Borselli intervista Briatore sulla Santanché, Libero, 5.7). E poi dicono che il giornalismo investigativo è morto.

L’oracolo. “La Procura di Milano ha deciso di non impugnare la sentenza Ruby ter” (Frank Cimini, Unità, 23.6). “Ruby ter, la Procura ricorre in Cassazione” (Unità, 30.6). Cimini meglio di Nostradamus.

Il titolo della settimana/1. “Van Houten, l’angelo della morte di Charles Manson, presto uscirà dal carcere: ha scontato 52 anni per omicidio” (Corriere della sera, 9.7). Riformista e Unità se lo contendono per una rubrica fissa.

Il titolo della settimana/2. “Sbloccare la controffensiva” (Foglio, 8.7). Mo’ me lo segno.

Il titolo della settimana/3. “L’Afghanistan ci ricorda che l’occidente sbaglia quando arretra” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 6.7). Ecco, non quando aggredisce.

Il titolo del secolo. “Titan, ‘vittima di un polipo gigante’: l’ultima drammatica pista” (Libero, 22.6). Di cocaina.


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AGGRESSORE E AGGREDITO

l'editoriale di Marco Travaglio

11 luglio 2023

Se gli storici della Seconda Repubblica saranno tutti come Paolo Mieli, le future generazioni crederanno che per “trent’anni (e passa) dall’inizio di Tangentopoli” l’Italia sia stata dilaniata da una “arroventata tenzone tra Politica e Giustizia”, finita “con la Politica a brandelli”. Lo “storico” Mieli, bontà sua, ammette sul Corriere che le indagini su Santanchè, Delmastro e La Russa jr. sono “slegate l’una dall’altra”, ma aggiunge uno scenario fantasy: “Spuntano da ogni dove nuovi magistrati che, resi baldanzosi, si applicano alla messa sotto torchio di altri esponenti della maggioranza” (senza spiegare chi siano questi nuovi pm e questi altri torchiati). Poi, trascurando la sacra distinzione fra aggressore e aggredito, accusa le toghe di aver impedito per 30 anni la mitica “riforma complessiva della giustizia” e sollecita Nordio a sfornarla immantinente perché è “stimato dai più” (sic).

Gli dà manforte il solito Violante che, sotto i bombardamenti governativi sui magistrati che fanno il loro dovere (indagare su notizie di reato, tipo i segreti spifferati da Delmastro e i pasticci finanziari della Santanchè, o sulla denuncia di una ragazza che si dice stuprata dal figlio di La Russa), trova che “oggi i problemi più urgenti sono posti da atteggiamenti non congrui dell’Anm”, rea di fare il suo dovere: difendere i magistrati bombardati. La solita lagna: “Decenni di conflitti” fra magistratura e politica, che avrebbe “rinunciato alla propria sovranità”. Ci vorrebbe mezza Treccani per smentire, prove alla mano, questo cumulo di balle e frasi fatte. Ma basta l’essenziale. 1) Non è mai esistito alcun conflitto fra politica e giustizia: esistono da 30 anni (e passa) magistrati (pochi) che indagano su politici delinquenti (molti), i quali tentano di farla franca diffamandoli, minacciandoli e cambiando le regole dei processi in corsa. 2) La magistratura non ha mai impedito alcuna riforma: dal 1992 a oggi se ne contano oltre 130 e quasi tutte (a parte il “giudice unico” dell’Ulivo e la Spazzacorrotti di Bonafede) hanno peggiorato le cose. Non per caso, ma per scelta. L’ultima è la Cartabia: una micidiale cluster bomb che, con un colpo solo, fa danni dappertutto. Quindi la politica non deve riprendersi alcuna sovranità perduta. Se volesse migliorare la giustizia, dovrebbe cancellare 30 anni di schiforme ed evitarne di nuove. Ma vuole peggiorarla vieppiù, ergo continua a schiformarla. 3) Se il governo non gradisce noie giudiziarie (i cosiddetti “conflitti fra politica e magistratura”), ha solo due strade: o la smette di nominare e di tenersi personaggi indagati, o chiacchierati, o in conflitto d’interessi, o in pessimi rapporti col Codice penale; o fa un decreto di un solo articolo con la lista dei soggetti che è vietato processare.

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SANT’ARTIGLIO

l'editoriale di Marco Travaglio

12 luglio 2023

La fabbrica dei santi dello Stato, molto meno selettiva di quella della Chiesa, ne ha sfornati altri due in un sol giorno. Non bastando San Silvio, pure Arnaldo Forlani e Attilio Fontana. Alle esequie dell’ex premier Dc, monsignor Vincenzo Paglia l’ha descritto come un martire che, dopo la “tempesta giudiziaria”, “bevve la cicuta fino in fondo”. La tempesta è l’indagine sulla più enorme mazzetta vista in Europa prima dell’avvento di Previti: la maxitangente Enimont (140 miliardi di lire), di cui Forlani confessò a Di Pietro di aver concordato una quota per la Dc con Carlo Sama. Dopodiché fu condannato, e ci mancherebbe pure. Quanto alla cicuta, è improbabile che Socrate-Forlani l’abbia bevuta, e fino in fondo: sennò non sarebbe campato fino a 97 anni.

L’altro santo è Fontana, presidente della Lombardia, prosciolto anche in appello per lo scandalo dei camici di suo cognato. Il popolare Artiglio ritiene così dimostrata la sua “correttezza”, mentre la Santanchè – un’intenditrice – loda la sua “integrità” e Salvini chiede addirittura “le scuse” dai 5S, dal Pd e dai media (Report e il Fatto) che denunciarono il conflitto d’interessi tra Fontana e il cognato. Spiace deluderli, ma la Corte non dà né può dare patenti di integrità e correttezza, perché non smentisce un solo fatto: conferma il verdetto del gup che escludeva la rilevanza penale della condotta di Fontana. Il quale, smascherato da Report e dal Fatto, si era affrettato a trasformare in “donazione” il contratto di “fornitura” da 513mila euro gentilmente offerto senza gara dalla sua Regione al cognato; e poi ad abbuonargli 25mila camici non consegnati e a tentare di rimborsargli metà dei mancati introiti (sui 50mila pezzi già forniti) con 250mila euro bonificati da un suo conto svizzero (quindi il cognato non voleva “donare” un bel nulla). Ma l’operazione fu bloccata dall’antiriciclaggio: così si scoprì che il presidente aveva conti in Svizzera con la presunta eredità materna di 5,3 milioni tenuti illegalmente su due trust delle Bahamas e fatti rientrare (per finta) in Italia nel 2015 con la voluntary disclosure. Né Report né il Fatto né i suoi avversari hanno mai parlato di reati: ma evidenziato uno scandalo etico-politico grosso come una casa, per il conflitto d’interessi cognatistico, per le tragicomiche bugie e per l’indecenza dei conti plurimilionari in Svizzera sempre taciuti agli elettori. Il fatto che in Italia tutto ciò sia lecito allieta comprensibilmente Fontana, ma dovrebbe preoccupare tutti gli altri. Perché qualunque amministratore pubblico sa di poterlo rifare impunemente grazie a una legge sul conflitto d’interessi che grida vendetta. Ecco: siamo noi che aspettiamo le scuse da chi l’ha fatta e da chi continua ad approfittarne.



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IL B. SBAGLIATO

l'editoriale di Marco Travaglio

13 luglio 2023

Le parole della premier Meloni contro l’entrata a gamba tesa di La Russa nell’indagine sul figlio, pur tardive, le fanno onore. Quelle su giudici e giornalisti invece sono indecenti. E quelle su Nordio imbarazzanti: “Non mettete insieme quello che il governo ha nel programma sulla giustizia e le scelte dei magistrati su casi specifici”. Se il gip respinge la richiesta del pm di archiviare Delmastro, ordinando l’imputazione coatta, e un minuto dopo Nordio annuncia che vieterà ai gip di respingere le richieste di archiviazione e ordinare l’imputazione coatta, chi è che mette insieme la “riforma” (mai vista nel programma di governo) e le scelte dei magistrati? Peggio ancora le parole sulla Santanchè: “La questione è extrapolitica, non riguarda l’attività di ministro… È molto complessa, va vista nel merito quando sarà tutto noto e compete ai tribunali, non ai programmi tv. L’anomalia è che l’indagine non viene notificata al ministro, ma a un quotidiano il giorno della sua informativa in aula”. Tutto falso: la notizia che la Santanchè è indagata uscì sui giornali il 3 novembre e la sua Visibilia Srl ricevette l’avviso di garanzia il 2 marzo. È lei che ha mentito al Senato e alla premier, che dovrebbe prendersela con lei, non con i media. E, in attesa che i giudici accertino gli eventuali reati, la questione è tutta politica: una ministra che insulta chi riceve il Rdc mentre prende milioni di fondi statali che non vuole restituire; non paga i dipendenti e li mette in cassa Covid mentre lavorano per lei e per La Russa; dichiara di non avere più conflitti d’interessi col Twiga, poi si scopre che lo usa per tappare i buchi delle società decotte anche dopo averlo girato al fidanzato e pure per finanziare FdI; e giura di ignorare ciò che sa da otto mesi. Non occorrono rinvii a giudizio o sentenze per sapere che una così non può fare la ministra.

Il perché lo spiegò Paolo Borsellino, a cui la Meloni e FdI dicono di ispirarsi, agli studenti di Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989: “Oltre ai giudizi del giudice, esistono i giudizi politici. Cioè le conseguenze che da certi fatti accertati trae, o dovrebbe trarre, il mondo politico… Questi giudizi non sono stati tratti. Perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza. Si è detto: ‘Ah, questo tizio non è stato mai condannato, quindi è un uomo onesto’. Ma dimmi un poco: ma tu non conosci gente che è disonesta ma non ci sono mai state le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe quantomeno indurre soprattutto i partiti a fare grossa pulizia? Non soltanto a essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia di tutti coloro che sono raggiunti comunque da fatti inquietanti, anche se non costituiscono reato”. Ora sta alla Meloni decidere se la sua destra è quella di Borsellino o quella di Berlusconi.


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IL SANTO

l'editoriale di MarcoTravaglio.

14 luglio 2023

Oggi esce con PaperFirst il mio libro “Il Santo. Beatificano B. per continuare a delinquere. Il libro definitivo per non dimenticare nulla”. Lo trovate da oggi nelle edicole, nelle librerie e negli store online. Vi propongo un’ampia sintesi della mia introduzione.

Avevo deciso di non scrivere più libri su Silvio Berlusconi. L’ultimo doveva essere B. come Basta! (2018), come diceva il titolo stesso… Ogni volta che le mani prudevano ed erano tentate di tornare a dedicargli qualcosa di più di un articolo, a dissuadermi provvedeva la dedica che la simpatica canaglia aveva scritto una decina di anni fa su un libro fotografico pesante mezzo quintale, L’Università della Libertà, portatomi in dono in un incontro privato dalla sua fidanzata di allora Francesca Pascale: “A Marco Travaglio, con stima. Da un combattente per la libertà a un altro combattente per la libertà… ma su un fronte diverso. Per sempre? Chi lo sa?! Silvio Berlusconi”. Già, perché lo spietato epuratore che per vent’anni aveva tentato di rovinarmi la vita e di stroncarmi la carriera più volte, direttamente con denunce miliardarie e indirettamente creandomi il vuoto intorno attraverso editori, direttori e conduttori al suo servizio, era pure simpatico. Ci provava sempre. E il miglior modo per non cascarci era ignorarlo, dopo che avevo scritto ormai tutto di lui, o così almeno credevo.

Poi è morto. E tutto è cambiato. Non con l’indecenza del lutto nazionale e delle beatificazioni alla Camera e al Senato… Ma quando un giornalista “indipendente” e pure “storico”, Paolo Mieli, è andato in tv a scusarsi per aver fatto il suo mestiere dando una notizia vera, l’unico scoop che gli si ricordi: quello del suo Corriere della Sera, che il 21 novembre 1994 rivelò in anteprima (insieme ad Avvenire) l’invito a comparire inviato dalla Procura di Milano all’allora presidente del Consiglio per tre tangenti alla Guardia di finanza. Poi, non contento, si è molto doluto del fatto che i magistrati non l’avessero torchiato a dovere per fargli sputare il nome della sua fonte, che lui – in spregio alle più elementari regole della professione – avrebbe volentieri spiattellato, investigando sui turpi moventi della fuga di notizie. Quel tragicomico atto di pentimento, seguito dall’analogo mea culpa di uno dei due giornalisti che avevano firmato lo scoop, Goffredo Buccini (l’altro era Gianluca Di Feo), mi ha provocato uno sbocco di vergogna a nome della categoria a cui purtroppo appartengo…

In quel preciso istante ho raccolto tutto il materiale archiviato in quasi trent’anni e ho deciso di metterlo a disposizione dei lettori per un libro davvero definitivo.

Altro che progetto di ibernazione, come qualcuno sospettava alla vista del poderoso gruppo elettrogeno montato nel mausoleo di Arcore: qui il vero pericolo è la clonazione. Se è vero, come diceva Karl Marx, che le tragedie della storia si ripetono sempre in forma di farsa, abbiamo come il sospetto che valga anche l’opposto: e cioè che la farsa berlusconiana possa ripetersi in forma di tragedia, anche se non riusciamo ancora a immaginarla. L’antipasto ce l’ha servito il governo di Giorgia Meloni, che avrebbe potuto seppellire il berlusconismo insieme al suo creatore, da cui giurava di non essere “ricattabile”. E invece ha deciso di perpetuarlo fin da subito, come se non bastassero i 12 condoni fiscali appena varati nella legge di Bilancio… Il cosiddetto ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dedicato al caro estinto la sua prima schiforma: quella che impone di avvertire gli arrestandi con cinque giorni d’anticipo e depenalizza il più odioso e subdolo dei reati del potere contro i cittadini, l’abuso in atti d’ufficio, legalizzando i favoritismi, le raccomandazioni e le scorciatoie giusto in tempo per arraffare la cascata di miliardi del Pnrr e dirottarla nelle solite mani (mani trasversali, visto che pure i sindaci del Pd, anch’esso ormai irrimediabilmente berlusconizzato, se le spellano per applaudire il Guardagingilli). Dal conflitto d’interessi personale all’impunità di gregge. Dalle leggi ad personam alle leggi ad personas. Non più per un Berlusconi solo, ma per tanti berluscloni.

A ben guardare, gli autodafé dei pochi giornalisti che in passato facevano il loro mestiere, così come le riabilitazioni trasversali dalla cosiddetta destra legalitaria alla presunta sinistra, è tutt’altro che casuale. È funzionale al sogno dell’establishment, che per noi cittadini è un incubo, di perpetuare il berlusconismo senza Berlusconi. E anche di evitare che, saltato il tappo, qualche boss di Cosa Nostra sepolto al 41-bis, persa ogni residua speranza di uscire con una legge ad mafiam, decida finalmente di dire la verità sui mandanti esterni delle stragi del 1992-’94 e sulla retrostante trattativa con lo Stato. Lo scoop del Corriere sull’indagine per le mazzette alla Guardia di finanza riguarda la quintessenza del berlusconismo con Berlusconi: il peccato originale da cui il cosiddetto Cavaliere è fuggito per quasi mezzo secolo, nel terrore di esserne raggiunto.

Nel 1974, insieme a Marcello Dell’Utri, aveva stretto un patto di ferro con Cosa Nostra quand’era solo un palazzinaro parvenu. E pochi mesi dopo aveva lanciato la scalata al sistema televisivo, grazie alle protezioni della loggia deviata P2 e della politica marcia dei vari Craxi e Andreotti. Due imprese che richiedevano molti soldi, non solo per costruire città-satellite e per acquistare antenne ed emittenti, ma anche per pagare i protettori, mafiosi e politici. E poi per comprarsi i poteri di controllo che avrebbero potuto scoprirlo e fermarlo – la Guardia di finanza e la magistratura – e il silenzio dei testimoni e dei complici che avevano visto, saputo o collaborato con lui a violare le leggi. Soldi in nero, ovviamente. Meglio se all’estero, parcheggiati in società occulte ai bilanci del suo gruppo e nascoste in paradisi fiscali. Ecco la minaccia che gli si materializzò dinanzi agli occhi quel 21 novembre 1994, quando i carabinieri inviati dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli gli notificarono l’invito a comparire per quelle tre tangentine (che ben presto sarebbero diventate quattro) allungate dai suoi manager con i suoi soldi a un pugno di finanzieri per addomesticare gli accertamenti fiscali nelle sue società. La quarta mazzetta era stata pagata per addomesticare un’ispezione a Telepiù, la pay tv che lui controllava al 100% tramite prestanome pagati da lui perché la legge gli vietava di superare il 10. La sanzione, in caso di violazione, era la revoca di tutte le concessioni televisive, quelle di Canale 5, di Rete4 e di Italia 1. Con tutto quello che gli erano costate, tra i due decreti Craxi del 1984 (lautamente “contraccambiati”, come lui stesso promise in una lettera all’allora premier socialista che… pubblichiamo a pag. 7) e la legge Mammì del 1990. Sarebbe stata la fine del suo impero televisivo, proprio quando quel formidabile propulsore di consensi l’aveva catapultato ai vertici delle istituzioni. Proprio quando non doveva più servire e pagare i politici perché le leggi su misura se le faceva da solo, gratis. Quelle quattro mazzettine, che insieme non arrivavano al mezzo miliardo di lire, potevano diventare la classica pietruzza che innesca la slavina e fa crollare tutto il castello di carte. Bastava un’ispezione seria sui conti del suo gruppo e sarebbero saltate fuori le centinaia di miliardi di fondi neri all’estero, usati per pagare premier, ministri, parlamentari, giudici, finanzieri, testimoni, correi, pali, prestanome per scalate illegali in Italia e oltre confine, e pure Cosa Nostra. Sarebbe stato il game over, proprio quando il gioco sembrava appena cominciato. E tutti i fatti sono stati confermati da sentenze definitive (quelle che hanno condannato i finanzieri corrotti e i manager F*******t corruttori, salvo Berlusconi, assolto per insufficienza di prove). Altro che pentirsi per averli raccontati in anteprima.

Quel che accade il 21 novembre 1994 concentra in un sol giorno e anticipa la storia dei 29 anni successivi, trascorsi dal Santo a scappare sempre più velocemente e spudoratamente da un passato che gli ghermisce le caviglie. Ecco allora le 60 leggi ad personam e ad aziendam, le nuove corruzioni di senatori e di testimoni (e poi di escort, anche minorenni, visto l’uso smodato e intensivo che ne faceva al tramonto della sua carriera di maschio latino), i soldi ai complici perché vadano in galera al posto suo e si cuciano la bocca (la famosa “giustizia eterologa”), gli impedimenti parlamentari suoi e dei suoi onorevoli avvocati per allontanare l’amaro calice delle sentenze. Il tutto con la complicità delle cosiddette opposizioni e di vasti settori della magistratura giudicante, che non solo non hanno mai pensato di perseguitarlo, ma anzi hanno sempre cercato ogni trucco e cavillo per salvarlo. Intanto le promesse elettorali si susseguivano sempre più mirabolanti, regolarmente tradite da un premier troppo impegnato a farsi gli affari suoi per occuparsi dei nostri. Tant’è che oggi nessuno, neppure fra i tifosi più sfegatati, è in grado di citare una sola sua riforma che abbia migliorato la vita di qualcun altro all’infuori di lui.

Chi cercasse una metafora di questa “storia italiana”, per farla capire ai propri figli e metterli in guardia dal rischio del contagio, potrebbe trarla dal mondo del calcio. Immaginate il presidente di una squadra che vince sempre perché scende in campo con 13 giocatori che segnano i gol con le mani. Si compra l’arbitro per convalidare il tutto. Trucca i filmati del Var per non lasciare tracce. Acquista le reti televisive perché non li trasmettano e i giornali sportivi perché tacciano e dicano che ha vinto con merito. Fa cacciare i cronisti che minacciano di dire la verità. Corrompe i giudici sportivi perché non lo squalifichino e, nel caso qualcuno non sia corruttibile, cambia le regole sportive per legalizzare ex post i gol con le mani e le partite giocate in 13 contro 11, ma solo per la sua squadra. Quelle avversarie, ricoperte d’oro e invitate nelle sue tv per farsi fregare in silenzio, lo invidiano e vorrebbero fare come lui, infatti invitano i tifosi a “dialogare” con lui ed evitare la tentazione di “demonizzarlo”. Il pubblico pagante vede tutto e sulle prime si indigna, ma poi si rassegna e alla fine comincia a tifare in massa per la squadra che vince sempre col trucco. Alla fine, quando il presidente muore, viene osannato dai tifosi della sua squadra e anche da quelli avversari perché, nonostante tutto, era un vincente: il più bravo di tutti. E chi obietta che era un mascalzone e che a vincere così sono buoni tutti viene sbeffeggiato: zitto tu, che sei “ossessionato” e hai fatto i soldi parlandone male…

Mentre scrivevo, mi rendevo conto che in un qualunque altro Paese sarebbe bastata una sola fra le migliaia di vergogne che il Santo ha inanellato fino al 12 giugno 2023 per stroncare la carriera di un politico. In Italia, per lui, non sono bastate neppure tutte le sue. È questa devastazione culturale e istituzionale che oggi, dopo la sua dipartita, dovrebbe preoccuparci: non ciò che ha fatto, ma che abbia potuto farlo perché tutti glielo lasciavano fare. E quei tutti, diversamente da lui, sono vivi. Pronti a lasciar fare chi vuol fare come lui. Come disse Ettore Petrolini al loggionista disturbatore: “Io non ce l’ho con te, ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto”.


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