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FATE SCHIFO

l'editoriale di Marco Travaglio

27 giugno 2024

Eniente, non ce la fanno proprio i cosiddetti “giornalisti” italiani a rendere omaggio a Julian Assange, il collega (senza offesa per lui) che ha nobilitato la professione mentre loro la sp*****avano a suon di veline, marchette e autobavagli. Non ce la fanno a scandalizzarsi perché Usa e Uk, celebri culle della democrazia, l’hanno costretto a vivere per 12 anni da sepolto vivo prima nell’ambasciata ecuadoregna e poi in una cella d’isolamento senza uno straccio di processo. Non ce la fanno a dire che il presunto Impero del Bene ha trasformato un attivista pieno di entusiasmo, di valori e di coraggio in una larva umana con 12 anni di accuse false (persino di stupro), persecuzioni politiche, torture psicologiche e progetti di “ucciderlo con un drone” (brillante idea di Hillary Clinton), fino a estorcergli in cambio della vita una confessione e un patteggiamento per un delitto inesistente, che per le Convenzioni internazionali è una medaglia da Pulitzer: svelare notizie vere e documenti autentici sui segreti e sui crimini del potere.

La stampa mondiale esulta perché Julian è finalmente libero e si allarma per il pericoloso precedente del patteggiamento, che espone ad arresti e condanne chiunque faccia il giornalista sul serio e dissuaderà chiunque altro dall’imitarlo. Intanto la nostra stampa serva schiera i suoi migliori crani embedded, tutta gente che non ha mai trovato una notizia vera in vita sua. Repubblica, che ha campato per anni su Wikileaks, deplora “l’enorme clamore mediatico e dei fan di Assange” per un fatterello del genere. E s’interroga pensosa: “Eroe? Criminale? Martire della libertà? Giornalista? Agente al soldo altrui?”. Meglio non pronunciarsi. In compenso Chelsie Manning, l’ex analista militare, attivista e whistleblower che gli fornì un bel po’ di carte, è “un ladro”. Per il Giornale anche Assange è “un ladro di segreti di Stato”, altro che “paladino della libertà”: uno “spione” con la “pancetta da abbrutito” (vedi a non fare palestra? Poi non passi la prova costume). Per la Stampa è un “personaggio controverso” che ha “favorito Trump e autocrati”, un “hacker” forse “putiniano”. Sul Foglio, la vera spia (della Cia) Giuliano Ferrara raccomanda: “Niente monumenti per Assange, colpevole e libero” che in fondo, dopo essersela cercata, “se l’è cavata” (restare chiusi come sorci per 7 anni in una stanza e per 5 in una cella d’isolamento è una passeggiata di salute). Anzi dovrebbe ringraziare i suoi persecutori: “I nemici degli Usa non muoiono in cella” (Libero), “Julian è libero, Navalny è morto. È la differenza fra democrazia e dittatura…” (Dubbio). Infatti la democrazia è quel paradiso che arresta chi dice la verità, ma poi non lo ammazza, o lo libera un attimo prima che crepi. E sono belle soddisfazioni.

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Dino

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EX VOTO

l'editoriale di Marco Travaglio

28 giugno 2024

L’ideona anti-astensionismo di La Russa – abolire
i ballottaggi alle Comunali quando un candidato supera il 40% – contiene una notizia bella e due brutte. La bella: la seconda carica dello Stato ha scoperto l’astensionismo. Le brutte: lo scopre solo ora che le destre han perso quasi tutti i ballottaggi col 52,3% di astenuti, ma non ci aveva fatto caso alle Europee col 50,3% di astenuti; il ballottaggio non c’entra nulla con l’astensionismo e abolirlo non farebbe aumentare i votanti al primo turno, che anzi diventerebbe un ballottaggio anticipato perché costringerebbe partiti molto diversi a coalizzarsi
(e dunque a snaturarsi) per raggiungere il 40%. Nel primo round gli elettori sono più numerosi perché possono scegliere, fra molti candidati, il proprio o il più vicino; nel secondo, il derby fra i due più votati esclude chi proprio non ce la fa a votare il meno lontano, anche perché nel finto bipolarismo italiota non riesce a trovarlo. Se davvero La Russa, Meloni&C. volessero combattere l’astensionismo, non dovrebbero cambiare le leggi (a parte quella elettorale, e non per aumentare il premio di maggioranza che scoraggia gli elettori, bensì per tornare al proporzionale con preferenza unica), ma i comportamenti. Evitando di tradire le promesse agli elettori e quindi di prendere impegni impossibili da mantenere. Blocco navale, anzi raddoppio degli sbarchi. Tassa sugli extraprofitti, anzi no. Basta accise, anzi no. Basta Fornero, anzi no. Basta amichettismi, anzi pure cognatismi e sorellismi. Basta austerità in Ue, anzi no. Basta trivelle, anzi no. Presidenzialismo, anzi premierato. Abolire le Regioni, anzi Autonomia. Mai ostacoli ai pm, anzi sì. No alla vendita di Ita ai tedeschi, anzi sì. No alla privatizzazione di Poste, anzi sì. Mai in Ue coi socialisti, anzi sì a von der Leyen coi socialisti. È finita la pacchia per l’Europa, anzi è finita per noi.

Ormai gli elettori votano per la novità del momento e non c’è nulla di più frustrante di un leader che promette di cambiare le cose e poi, giunto al potere, lascia che siano le cose a cambiare lui. È accaduto alle due meteore del decennio, Matteo 1 e Matteo 2, precipitate dagli altari alla polvere in un paio d’anni. E rischia di riaccadere a Giorgia ed Elly, le due novità delle Politiche e delle Europee. La prima si snatura da due anni per farsi accettare dall’establishment nazionale e internazionale, ma sta scoprendo in queste ore che lorsignori vogliono la resa, se non l’harakiri. La seconda fu eletta segretaria del Pd per cacciarne i cacicchi e i capibastone, ma ora vince proprio grazie a loro e, passata la moda, gli elettori si domanderanno dove stia il “nuovo Pd”. E che senso abbia votare se l’unico cambiamento possibile è quello dei leader che promettevano il cambiamento.

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IL RE È RINCO

l'editoriale di Marco Travaglio

29 giugno 2024

A un certo punto del raccapricciante faccia a faccia dell’altra notte, si è avuta la netta sensazione che, se Trump avesse chiesto a bruciapelo a Biden “come ti chiami?”, il Capo del Mondo Libero non avrebbe saputo rispondere. Ma, per tutti i 90 minuti del derby fra il mascalzone esagitato e il mascalzone rintronato, le domande che galleggiavano sul capoccione phonato del primo e su quello incollato del secondo erano altre. Come ha potuto la Culla della Democrazia ridursi a una scelta tanto imbarazzante? Chi sta guidando davvero gli Usa e l’Occidente verso la terza guerra mondiale? Per quanto tempo ancora i dem americani e i commentatori internazionali al seguito pensavano di poter negare ciò che il mondo intero vede a occhio nudo da anni sullo stato pietoso in cui versa il “commander in chief”? Solo pochi giorni fa Repubblica spacciava una doverosa inchiesta del WSJ sulla salute mentale di Biden per un “attacco dei repubblicani”. E Domani spiegava che il presidente Usa sta una favola, ma i “trucchi” e le “fake news a basso costo” della “campagna di Trump vogliono farlo apparire confuso, lavorando su inquadrature e tagli per trasmettere un’idea falsata”. Certo, come no.

Poi l’altra sera, come nella fiaba del re nudo ma senza bisogno del bambino, tutto il pianeta ha visto Rimbambiden al naturale: saltava di palo in frasca, biascicava frasi incomprensibili (poveri interpreti), infilava il prezzo dell’insulina nella risposta sull’Ucraina e i chip coreani in quella sull’età, vantava come un trionfo l’invereconda fuga da Kabul, ripeteva che Putin vuole invadere la Polonia e poi l’intera Europa, cose così. E non di fronte a un campione di dialettica, ma a un odioso e rozzo bullaccio che ficca i migranti e i veterani dappertutto, spara (anche lui) cifre a casaccio e mente (anche lui) a ogni respiro. Al confronto, il peggior politico italiano pare Churchill. Biden s’è distrutto da solo, con scene pietose che ricordano il tramonto dell’altro impero, quello sovietico, plasticamente incarnato dal corpo mummificato e surgelato di Breznev issato sulla balconata del Cremlino per mostrarsi ancora vivo con meccanici scatti del braccio. Eppure, fino all’altroieri, chi osava dire che l’Occidente è in mano a un rinco era un nemico della democrazia e un servo di Trump, oltreché di Putin. E i nemici delle “post-verità” trumpiane accreditavano quella bideniana per “non fare il gioco” di The Donald, senza accorgersi di lavorare proprio per lui. Perché, a quattro mesi dal voto, è difficile cambiare cavallo in corsa. E perché la reputazione della “democrazia” americana, diretta per finta da Rimbambiden e per davvero da una cricca di fantasmi mai eletti che gli fan dire e fare ciò che vogliono, è irrimediabilmente compromessa.

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MA DRAGHI È LETTA?

l'editoriale di Marco Travaglio

30 giugno 2024

Ogni mattina compulsiamo spasmodicamente ogni articolo sui negoziati europei a caccia di un indizio, una traccia, un segnale, una frase, un monosillabo, un cenno, un ammicco, un qualcosa purchessia che ci rassicuri sull’esito più naturale per i vertici dell’Ue: la carta Draghi e l’opzione Letta (nel senso di Enrico). A furia di leggerne sui giornaloni, ci abbiamo fatto la bocca. E gli elettori sono stati chiarissimi. Un sol coro dall’Italia al Baltico, dal Nord Europa alla Penisola iberica ai Balcani: “Mai più senza Draghi e Letta!”.

Chi volete che avessero in mente gli italiani che hanno premiato la destra, i francesi che han votato Le Pen, i tedeschi arrapati dai popolari e dai neonazi, gli ungheresi filo-Orbán e gli altri popoli devoti ai sovranisti contro i tecnocrati di Bruxelles? Draghi e Letta. Anche Renzi, in tandem con la Bonino, era stato chiarissimo: “Voglio Draghi alla guida dell’Ue”, “Vorrei la maggioranza Mario”. E pure la Boschi: “Draghi al posto di Ursula”. E Calenda, perentorio: “Draghi presidente Ue? Io ci credo”. Il Corriere, sempre informatissimo, non aveva dubbi: “Draghi, un piano per l’Europa”, “Bene la svolta di Draghi per l’Ue”, “Opzione Draghi”, “La sveglia di Draghi”, “Sondaggio nella Ue, Draghi batte Ursula”. Anche in Scandinavia, per dire, il culto mariano faceva impazzire tutti. Il Tempo: “Tutti sognano Draghi”. Repubblica non stava più nella pelle: “Ue, si tratta su Draghi”. “Road map Ue, Draghi da von der Leyen”, “Il ruolo di Michel potrebbe liberare la casella per Draghi”, “L’Europa secondo Draghi”, “La carta Draghi”, “Porta aperta di Meloni a Draghi”, “A chi può giovare il fattore Draghi”, “Per Giorgetti, Draghi è la scelta migliore per l’Ue”, “Palazzo Chigi studia se indicare l’ex Bce”, “La lezione di Draghi”. Era fatta. Lui faceva sapere di non essere interessato, ma la Stampa mica ci cascava: “Fattore Draghi”, “Draghi vede Macron e i commissari Ue. Le tentazioni europee sull’ex premier”, “Draghi scende in campo”, “La scossa di Super Mario all’Ue bella addormentata”, “Torna l’ipotesi Draghi al Consiglio Ue”, “La scossa di Draghi”, “Il manifesto di Draghi”. Il Sole 24 ore aveva notizie di prima mano: “Draghi come sostituto di Michel è la soluzione super partes per rompere gli schemi”. Per il prestigioso Libero di Sechi l’opzione Draghi era una pura formalità: “SuperMario prenota una poltrona al Consiglio Ue”, “Il piano Draghi e il ritorno della storia”, anche perché, non bastando Renzi, Boschi, Bonino e Calenda, anche “Gentiloni lo sostiene”, e sono sempre soddisfazioni. L’autorevole Giornale di Sallusti tagliava la testa al toro: “Torna Draghi e fa un pensierino all’Europa”, “Draghi, carte coperte. Ma nessuno crede che farà solo il nonno”.

E ancora: “Lo scenario Draghi alla Commissione Ue agita il centrodestra”, “Draghi riscende in campo”, “Il programma di Super Mario”, “I contatti telefonici tra Meloni e l’ex Bce”, “Si rafforza l’ipotesi Draghi”, “Riportiamo Draghi in campo”. “Draghi, fuoriclasse che ci serve (e che fa gola pure all’America)”. Ecco, quei golosoni degli americani volevano portarcelo via, ma nulla potevano contro gli spingitori italiani, inclusi i portafortuna del Foglio: “Un caffè segreto tra Draghi e Ursula offre suggestioni sul dopo 9 giugno”, “Sogna il Quirinale ma è in corsa per Commissione e Consiglio Ue. La moglie Serenella: ‘La politica lo teme, non lo ama’”, “Vota Antonio? No: vota Mario! La nuova agenda Draghi ha messo in mutande i populismi di destra e sinistra”. Non s’era ancora trovata la prima Agenda Draghi e zac! Il rag. Cerasa già lanciava la seconda, in pelle umana. Altro amuleto, l’Unità di Samsonite: “Riappare Draghi: vuole prendersi l’Europa”, “Timone Ue a Draghi: FdI frena, Pd ci sta, Centro esulta”. Il Riformatorio vedeva “Draghi a Bruxelles senza l’appoggio dell’Italia”, ma con quello dei marziani. E il Messaggero annunciava un’irresistibile “raccolta firme di Ichino e Martelli: ‘Sia Draghi a guidare Bruxelles’”. Ichino e Martelli, mica pizza e fichi. Mancava solo Fassino.

E Letta? Anche lui, zitto zitto, inesorabilmente avanzava. Soprattutto sulla Stampa, che ci teneva tanto: “Ipotesi Letta al Consiglio europeo. La premier non metterebbe il veto”. “La carta Letta al Consiglio Ue. Il report che ha convinto Meloni”. Ma anche sul Corriere: “L’opzione Letta al Consiglio Ue e l’antico rapporto con Meloni: ‘come Sandra e Raimondo’, confronto periodico civile e rispetto reciproco”. Il nipote di suo zio aveva addirittura trasformato in un libro, appassionante come tutto ciò che fa e dice, il suo rapporto sull’economia europea, dal frizzante titolo Molto più di un mercato. Viaggio nella nuova Europa, anticipato a edicole unificate alla vigilia delle trattative Ue da Corriere, Repubblica, Sole e Messaggero. Poi i Ventisette si son visti davanti al caminetto e nella cena finale. E proditoriamente nessuno, ma proprio nessuno, neppure il premier di Malta, ha nominato né Draghi né Letta. Un attacco collettivo di amnesia? O di pazzia? O di masochismo, viste le rivolte popolari che esploderebbero fra tutti i popoli orbati di cotali leccornie? Impossibile. Dev’essere un astutissimo bluff del Consiglio Ue, che se n’è uscito con la terna Von der Leyen-Costa-Kallas per tenere coperti i due assi nella manica e tirarli fuori al momento opportuno. L’alternativa è che in Europa nessuno legga i giornaloni italiani né dia retta a Renzi, Boschi, Bonino e Calenda: ma questa è pura fantascienza.

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MA MI FACCIA IL PIACERE

l'editoriale di Marco Travaglio

01 luglio 2024

I portafortuna. “Joe Biden non ce la fa… Cambiare cavallo è un dovere per tutti” (Matteo Renzi, senatore Iv, X, 28.6). “Biden doveva provarci, ma ora è urgente il cambio di cavallo” (Giuliano Ferrara, Foglio, 29.6). Quindi c’è speranza persino per Biden.

Un sincero democratico. “I dem hanno sbagliato a volere il duello fra Biden e Trump” (Alan Friedman, Stampa, 29.6). Dovevano fingere che Biden scoppiasse di salute fino alle elezioni e poi, a cose fatte, avvisare gli elettori che avevano votato uno inabile a governare. Però il golpista è Trump.

Entrate e uscite. “Meloni esce a pezzi dal confronto sulle nomine in Europa” (Davide Faraone, capogruppo Iv alla Camera, 28.6). Parola di quelli che non ci sono manco entrati.

Barbera, champagne. “Augusto Barbera, presidente della Consulta: ‘Il premierato? Rivedere la forma di governo non solo è legittimo, ma è necessario’” (Sole 24 ore, 28.6). Il presidente della Corte incostituzionale.

Ora d’aria/1. “Toti, vertice di giunta ai domiciliari: ‘Maggioranza ancora più unita’” (Corriere della sera, 25.6). Sentono aria di casa: lo fanno per ambientarsi.

Marina mercantile. “Parla Zan (Pd): ‘Marina Berlusconi in confronto a Meloni è una progressista’” (Foglio, 28.6). Ma va’ ma ciapà i ratt.

Incassese. “Gli italiani e la corruzione. Ma è un fenomeno così pervasivo? E poi come si fa a calcolarla: con i titoli dei giornali o con i numeri?” (Sabino Cassese, Foglio, 28.6). Massì, dài che è tutta un’invenzione.

Le centurie di Nostradamus. “I dubbi del Colle sull’Autonomia. Sotto attento esame norme e coperture. Il Quirinale si prenderà fino a 30 giorni” (Repubblica, 24.6). “Autonomia, il faro del Quirinale. Mattarella si riserva di prendere il giusto tempo” (Stampa, 24.6). “Il presidente Mattarella ha promulgato la legge sull’autonomia differenziata, dopo 6 giorni dalla sua approvazione definitiva da parte del Parlamento, smentendo le ipotesi di un esame non velocissimo da parte del Colle” (Ansa, 27.6). I famosi dubbi del famoso faro.

Polli Aja. “I mandati di arresto della Corte penale internazionale contro Shoigu e Gerasimov indicano che la giustizia per i crimini russi contro gli ucraini è inevitabile e che nessuno può proteggere i criminali russi dalle loro responsabilità. Ora mi aspetto ulteriori mandati di arresto” (Volodymyr Zelensky, presidente dell’Ucraina, 25.6). Dev’essere per questo che il governo ucraino non riconosce la Corte penale internazionale.

Chi la fa l’aspetti/1. “Oggi l’Europa impone una sanzione senza precedenti: l’interdizione di Russia Today e Sputnik sul mercato dell’Ue su tutti i media: televisione, satellite, streaming, app, Iptv e Isp, per vietare in tutta Europa che la macchina mediatica del Cremlino possa agire” (Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato interno, Ansa, 1.3.2022). “Il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso oggi di sospendere le attività di diffusione nell’Ue di altri quattro organi di informazione che diffondono e sostengono la propaganda e la guerra di aggressione russe in Ucraina: Voice of Europe, Ria Novosti, Izvestia e Rossiyskaya Gazeta” (comunicato Ue, 17.5.2024). “Il bavaglio di Putin ai media occidentali. La Russia intende bloccare l’accesso a ben 81 giornali di 25 Paesi Ue. Oscurate Stampa, Repubblica, Rai e La7” (Stampa, 26.6.2024). “La Russia oscura i media occidentali. Colpita Repubblica” (Repubblica, 26.6.2024). L’allievo ha superato i maestri.

Chi la fa l’aspetti/2. “’Kim pronto a mandare uomini in Ucraina’. I timori del Pentagono” (Repubblica, 27.6). E chi si crede di essere, Macron?

Case/1. “Paita traccia la road map (e si candida?): ‘Italia viva verso la casa dei riformisti’” (Riformista, 26.6). Quella di riposo.

Case/2. “Occupare le case è l’unica politica abitativa che resta” (manifesto, 25.6). Per chi fosse interessato, la sede del manifesto è in via Angelo Bargoni 8, Roma.

Catalano. “Salis: ‘Meglio Bruxelles del carcere ungherese’” (Giornale, 25.6). Ma va?

Il titolo della settimana/1. “Parla Bertinotti: ‘Dal conflitto allo spettacolo: finito il ’900 è finita la grande politica’” (Unità, 26.6). Ed è arrivato lui.

Il titolo della settimana/2. “’Trump sta perdendo’. Parola di Karl Rove” (Foglio, 26.6). Uahahahahah.

Il titolo della settimana/3. “Marina scuote il Palazzo sull’etica” (Giornale, 27.6). Vedi sopra.

Il titolo della settimana/4. “Silvio Berlusconi Editore, ovvero c’è ancora speranza per i liberali” (Foglio, 26.6). Quella che chiuda.

Il titolo della settimana/5. “Trame nere contro la Ue” (Repubblica, 25.6). Ci invade il battaglione Azov?

Il titolo della settimana/6. “Arriva il decreto carceri: pene scontate nelle coop” (Messaggero, 24.6). Soprattutto alla cassa.

Il titolo della settimana/7. “L’autonomia differenziata non è un sacrilegio” (Aldo Cazzullo, Corriere della sera, 27.6). È solo una cagata.

Il titolo della settimana/8. “Sabino Cassese: ‘L’Autonomia differenziata? Un assetto disegnato dai costituenti. L’alternativa è tornare a Napoleone’” (Stampa, 21.6). Biden, al confronto, è lucido

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L’ÉCOLE DES IMBÉCILES

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02 luglio 2024

In un’intervista del 2018 ad Antonello Caporale, Jean-Paul Fitoussi definì Macron “un imbecille”. Ora lo dicono pure i macroniani più ferventi. Ma soprattutto l’80% degli elettori francesi, che non sanno più come farglielo capire. Non che l’abbiano mai amato, anzi. Nel 2017, al primo turno, lo votò appena il 24% (il 18 degli aventi diritto), e fu solo perché aveva contro Marine Le Pen se vinse il ballottaggio col 66. Stessa scena nel 2022: 27,8 al primo turno e 58,5 al ballottaggio grazie al solito effetto Le Pen. Macron è sempre stato un Micron che si crede Napoleone. Infatti, precipitato al 14% alle Europee dopo sette anni di malgoverno, s’è illuso che strillare al babau fascista bastasse a costringere i francesi a turarsi il naso per la terza volta. E gli è andata male: sia perché, a furia di svolte moderate e al confronto di Zemmour, la Le Pen sembra Forlani; sia perché la sinistra che Macron si era illuso di aver debellato si è unita ed è arrivata seconda, relegandolo a un umiliante terzo posto. Ora il galletto tenta la desistenza con le sinistre che finora tacciava di “antisemitismo”: un’ammucchiata da ballottaggio per scippare a Le Pen&Ciotti la maggioranza assoluta. Ma non per governare: l’Union ben poco Sacrée fra sinistre e Renaissance macroniana non avrebbe i numeri né un solo punto in comune. Non ne hanno neppure France Insoumise del pacifista e “populista” Mélenchon e i socialisti dell’atlantista e “riformista” Gluksmann, a parte l’intenzione di smantellare tutto ciò che ha fatto Macron: il primo è l’acqua, il secondo l’olio, il terzo il gas. Paradossalmente, tralasciando le vecchie etichette ideologiche destra- sinistra/fascismo-antifascismo, le critiche di Le Pen e Mélenchon alle politiche antisociali e belliciste del fighetto dell’Eliseo rendono la destra e la sinistra molto meno distanti fra loro che da lui.

L’ex socialista al caviale Macron, come Blair, i due Clinton, Biden e la loro caricatura italiana Renzi, è l’ultimo epigono di una falsa sinistra “riformista” che a furia di guardare al centro ha desertificato il suo campo e spalancato la strada alle destre. Il cartello anti-Le Pen è la versione francese delle nostre ammucchiate di Monti, Letta e Draghi che dovevano salvarci dai “populismi” e invece li hanno ingrassati. Se in Italia le destre sono esplose in ritardo è grazie al “populismo” pulito, sociale, progressista e democratico dei 5Stelle. Cioè l’unica vera bestia nera dei sedicenti “riformisti” e “liberali”, che l’hanno massacrata anziché studiarla e imitarla, col risultato di spianare la strada prima a Salvini e poi alla Meloni. Quando Grillo avvertiva dal 2012 che “senza i 5S avremmo già Le Pen e Alba Dorata”, gli imbecilli italioti sghignazzavano. Ora, compiuta la missione, hanno smesso, ma fanno scuola in Francia.

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LA FOTO DEL MALAUGURI

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03 luglio 2024

Fratoianni, Schlein, Bonelli, Magi, Acerbo e Conte hanno accolto l’invito di Pagliarulo a parlare di Costituzione alla festa bolognese dell’Anpi. Dunque la foto di gruppo non ritrae la prossima alleanza anti-destre. Ma così l’ha presentata la Schlein, invocando un Fronte Popolare antifascista alla francese da Rifondazione a quel che resta di Azione e Iv (assenti alla Bolognina per motivi di salute) per vincere le Politiche. E subito qualcuno l’ha accostata ad altri scatti del malaugurio: la foto di Vasto, alla festa Idv 2011, fra Bersani, Di Pietro e Vendola, a due anni dal primo boom 5Stelle; e quella di Narni fra Conte, Di Maio, Zingaretti e Speranza, nella campagna del 2019 in Umbria poi vinta dalle destre. Ma a Vasto e a Narni c’erano leader di partiti compatibili, che quando finalmente governarono diedero buona prova nel Conte-2. A Bologna ce n’erano sei accomunati solo dal non governare. Un po’ come quelli del Prodi-2 che unì (si fa per dire) nell’ordine: Rifondazione, Comunisti italiani, Ds, Verdi, Margherita, Indipendenti dell’Ulivo, Idv, Rosa nel Pugno, Socialisti, Italia di Mezzo di Follini, Democratici Cristiani Uniti di tal Mongiello, Lega per l’Autonomia di tali Brivio e De Paoli, Democratici Meridionali di Loiero, Italiani in Sudamerica di tal Pallaro, Consumatori (due), Udeur di Mastella. Infatti durò 23 mesi. Anche i Sei della Bolognina, se dovessero governare insieme, non andrebbero d’accordo quasi su nulla: ciascuno ha (quando ce l’ha) la sua politica estera, economica, fiscale, giudiziaria, istituzionale.

Per fortuna nessuno ha chiesto al radicale Magi di parlare di Israele, Ucraina, America o Francia, sennò sarebbe scoppiata la rissa con Conte, Acerbo e Fratoianni, mentre Schlein avrebbe chiesto di andare al bagno. Idem su qualunque altro tema a scelta. La folla invocava “Unità!” e s’è entusiasmata quando i leader, a parte Conte già fuggito, cantavano Bella ciao. E va capita: ne ha viste troppe, nel lungo film del tafazzismo della “sinistra”. Ma l’antifascismo non è un programma di governo: in Francia potrà forse dare un po’ di filo da torcere alla Le Pen, ma non far governare macronisti e frontisti, che dissentono su tutto. Figurarsi in Italia, dove il peggio – berlusconismo, renzismo e salvinismo – è già passato e il melonismo è già in fase calante. Opporsi a questo sgoverno è molto più facile che proporre un’alternativa. Guai se l’intera opposizione si ingabbiasse nella camicia di forza della “sinistra”, lasciando il “populismo” alle destre: serve anche quello dei 5Stelle e di una sinistra vera, che parlino oltre le Ztl e convincano milioni d’“invisibili” a votare. Basta foto-ammucchiate: ogni partito vada a caccia degli elettori più simili al suo target. I leader, fino alle Politiche, meno si fanno vedere insieme e meglio è.

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IL SINTOMO E IL VIRUS

l'editoriale di Marco Travaglio

04 luglio 2024

Parlare di alleanze per le Politiche del 2027, con questo caldo e queste piogge, non è il massimo. Ma, visti i messaggi, lettere e commenti giunti dopo il mio pezzo di ieri, forse è il caso di riprovarci. Il guaio, temo, è il malvezzo di analizzare i risultati elettorali guardando sempre agli eletti e mai agli elettori. Che in democrazia, come i clienti al ristorante, hanno sempre ragione. Non nel senso che il loro voto sia sempre giusto, anzi: infatti poi quasi sempre lo cambiano. Ma nel senso che sono gli unici titolati a decidere. E chi cerca consensi duraturi deve guadagnarseli armandosi di umiltà e provando a mettersi nei loro panni. Non per applaudirli o per fischiarli, ma per capirli. Perché mezzo milione di italiani esce di casa di domenica per recarsi al seggio e votare Vannacci? Perché, con i disastri combinati fin qui, le destre non calano, anzi salgono? Perché più i grandi media demonizzano i “populisti” e più gli elettori li premiano? Perché dopo Obama arrivò Trump e dopo Biden può tornare Trump? Perché, dopo sette anni di Macron, vince la Le Pen, che ci provava da 13 anni e non ha neppure l’aura della novità? Possibile che gli elettori del “mondo libero”, bravi e saggi finché votavano “bene”, siano diventati tutti fascisti?

Mentre i fini analisti giocano a Risiko spostando un carrarmatino un po’ più al centro e un plotoncino da destra a sinistra o viceversa, la gente normale pensa a tutt’altro. E se ne frega dei ferrivecchi di centro, destra e sinistra che – intendiamoci – esistono nel cuore e nella mente di tante brave persone, ma sono ormai usurati e sp*****ati dall’abuso che i partiti ne fanno da troppo tempo. Le destre illiberali e cialtronesche italiane, francesi, tedesche, spagnole, americane, distanti mille miglia da quelle liberaldemocratiche del vecchio conservatorismo, non sono il virus: sono il sintomo dei tradimenti e dei fallimenti delle socialdemocrazie che, travestite da “riformismo”, hanno abbandonato centinaia di milioni di esclusi, invisibili, nuovi poveri, ceti medi impoveriti da globalizzazioni, automazioni, diseguaglianze, intelligenze artificiali, guerre e sanzioni a senso unico, e spaventati da tutto ciò che sentono più grande di loro e vivono come ostile: immigrazione incontrollata, tecnocrazie globaliste, austerità selettive, establishment elitari e castali. E chi dovrebbe prendersi cura delle loro paure – la cosiddetta sinistra – li criminalizza come zotici populisti. Parla di astruserie, tipo cambiare nome alla Festa dell’Unità in Festa dell’Unit* per non offendere le “a” accentate. E, invece di inventare idee e linguaggi popolari per comunicare con loro con un populismo sano e giusto, medita un bel fronte popolare antifa (anzi antif*) per trattarli da fascisti. Quando arriva l’ambulanza?

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TUTTA SUO PADRE

l'editoriale di Marco Travaglio

05 luglio 2024

Marina di qua, Marina di là. Da quando la primogenita di B. ha detto al Corriere di essere “più in sintonia con la sinistra di buonsenso su diritti civili, aborto, fine vita, diritti Lgbtq” che col governo, perché “ognuno dev’essere libero di scegliere” e l’illustre genitore aveva speso l’intera vita per la “libertà”, è tutto un coro di gridolini giubilanti dai vedovi inconsolabili dell’inciucio: evviva, “torna la destra liberale di B.”, “si rafforza la corrente liberal di FI”! Insomma Marina è tutta suo padre e ora speriamo che o lei o Pier Silvio ci salvino dall’oscurantista meloniano. Ora, fermo restando che le colpe dei padri non ricadono sulle figlie, quella del B. liberale o financo liberal, alfiere dei diritti e delle libertà (a parte quella di delinquere) è una solennissima minchiata. I suoi tre governi furono molto più diritticidi dell’attuale: lui faceva i suoi porci comodi, poi varava leggi per levare agli altri cittadini ogni diritto e libertà civile. Come ha ricordato lunedì Fabrizio d’Esposito, ancora nel 2021 vantò le “radici cristiane di FI” (in realtà pagano-clericali) su aborto e fine-vita: “La vita di ogni essere umano è sacra dal concepimento fino alla morte biologica”.

Nel 2004, per assecondare la Cei di Ruini, varò la legge 40 contro la procreazione assistita e la ricerca e nel 2005 schierò il centrodestra coi vescovi per l’astensione al referendum abrogativo, che infatti mancò il quorum. Nel 2007 il noto massone divorziato, appena fotografato a Villa Certosa con un plotone di squinzie sulle ginocchia, sfilò al Family Day dei catto-oltranzisti contro la timidissima legge di Prodi sulle coppie di fatto e per la “famiglia tradizionale” (tipo la sua): “Noi cattolici dobbiamo reagire. C’è un rigurgito di laicismo che vuole impedire alla Chiesa di parlare”. Nel 2009 i medici stavano finalmente per sospendere i trattamenti meccanici che tenevano artificialmente in vita Eluana Englaro dopo 17 anni di coma vegetativo. Ma lui, per compiacere i pro life, convocò un Consiglio dei ministri straordinario per varare un decreto che imponeva il ripristino dell’alimentazione e idratazione forzate, cancellando la Cassazione e la Consulta. Napolitano, una volta tanto, annunciò che non avrebbe firmato e B. dovette ripiegare su un ddl. Ma accusò il Colle di appartenere alla “cultura della morte e dello statalismo” e Beppino Englaro di voler “togliersi di mezzo una scomodità: dopotutto la ragazza è assistita senza aggravio di spese per il padre. E mi dicono che è lì viva con un bell’aspetto e delle funzioni come il ciclo mestruale attivo: potrebbe ancora avere dei bambini”. Nel 2010 sistemò pure la comunità Lgbtq: “Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay”. Dal magico mondo del liberalismo berlusconiano è tutto, linea allo studio.

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ORBI ET ORBÁN

l'editoriale di Marco Travaglio

06 luglio 2024

Di Victor Orbán sappiamo tutto e non dimentichiamo nulla: leader dei conservatori nazionalisti ungheresi; premier nel 1998-2002 e poi di nuovo dal 2010; tradizionalista, euroscettico, filorusso, filocinese, amico di B. e di Netanyahu; furbissimo e pragmatico (ha appena votato il socialista Costa a capo del Consiglio Ue); nel mirino di Bruxelles per le battaglie contro i diritti civili e i migranti, fiero di aver trasformato il suo Paese in una “democrazia illiberale” (parole sue), ragion per cui il Ppe sospese nel 2019 il suo partito Fidesz che poi ne uscì nel 2021 per unirsi alle destre estreme. Ma proprio chi di lui sa tutto e non dimentica nulla dovrebbe domandarsi come sia possibile che, dopo 28 mesi di guerra, abbiamo dovuto attendere il semestre ungherese di presidenza della Ue per vedere un gesto normale da un leader europeo: un viaggio a Kiev e a Mosca per parlare di negoziati.

Eppure tutti i big dell’Ue e dei 27 Paesi membri assicurano che l’obiettivo delle vagonate di armi e miliardi spedite a Kiev è il negoziato di pace, anche se comicamente aggiungono “giusta” (come se ne fosse mai esistita una nella storia). Ma, anche se credessero alle fesserie che dicono, dunque all’imminente vittoria di Kiev, come pensano di arrivare alla famosa pace giusta parlando solo con Zelensky e non con Putin? Parlare non vuol dire subire o arrendersi: ma domandare ai due quali condizioni pongono per sedersi al tavolo, scartare quelle inaccettabili e discutere quelle ragionevoli alla luce del campo di battaglia. Che poi è il vero tavolo di ogni negoziato. Dopo quasi due anni e mezzo di bugie (stiamo vincendo noi), capricci infantili (vogliamo tutto) e centinaia di migliaia di morti, tutti sanno che la guerra può finire solo in tre modi: l’Ucraina che sbaraglia la Russia (ipotesi impossibile, oltreché pericolosa: prima di alzare bandiera bianca, Putin ha un bel po’ di testate nucleari pronte all’uso); la Russia che prende tutta l’Ucraina (ipotesi improbabile: Mosca non vuole e comunque non ha i mezzi per farlo); un compromesso a metà strada (unico esito ragionevole, resta solo da capire dopo quanti altri morti). Certo, non sarà Orbán ad avviare il negoziato: appena saputo dell’incontro con Putin, l’euroimbecille di turno Michel l’ha scomunicato: “Non a nome dell’Europa”. Si parla e si tratta con Hamas, Iran, al-Sisi, MbS, talebani e le peggiori canaglie del pianeta, ma con Putin no. Con Putin parlano il Papa, Xi Jinping, Erdogan, Israele, il Sud del mondo, gli stessi Usa, ma l’Ue no. La pace non deve solo essere giusta, ma anche piovere dal cielo. Verrebbe voglia di rammentare agli eurodementi che “non si arriva alla pace stando seduti in poltrona a Bruxelles”. Ma purtroppo anche quello l’ha già detto Orbán.

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L'AEROPORCO

l'editoriale di Marco Travaglio

07 luglio 2024

Non bastava il biglietto da visita che l’Italia esibisce ai turisti stranieri (noi ormai ci abbiamo fatto il callo) nelle stazioni ferroviarie ridotte a porcilaie da favelas e ammassi di carne umana in file disumane sotto la canicola o i nubifragi a caccia di un taxi che non c’è. Infatti il cosiddetto ministro dei Trasporti Salvini ha annunciato “con orgoglio e commozione” nella location più consona, la masseria di Vespa, l’ultima ideona per migliorare la nostra immagine nel mondo: l’aeroporto di Malpensa, cioè lo sterminato e inutile obitorio in marmo verde eretto in quel di Lonate Pozzolo al tramonto della Prima Repubblica a maggior gloria di Tangentopoli e Sprecopoli, sarà intitolato a Silvio Berlusconi. Cioè al primo e finora unico premier del mondo libero espulso dal Parlamento per una condanna definitiva per frode fiscale, oltre a nove prescrizioni e a una sentenza che immortala i suoi finanziamenti a Cosa Nostra fino al 1992, l’anno delle stragi. Ora Dagospia parla addirittura di “aeroporco”. E il Pd protesta vibratamente per la “scelta inopportuna” di B., “uomo divisivo con una storia molto ambigua”. E in effetti, quando pensi a B., il primo aggettivo che ti viene in mente è “divisivo” e il secondo è “ambiguo” (chiedendo scusa alle signore). Grande è invece l’esultanza del presidente della Lombardia, Attilio Fontana, per il “giusto tributo”: scelta lessicale quantomai appropriata per un frodatore fiscale. Si era anche pensato di omaggiare B. dedicandogli una strada di Milano o di Arcore, ma “Via Berlusconi” sarebbe suonato equivoco. L’ideale era la tangenziale, ma si è temuto di discriminare gli altri tangentari.

La nuova toponomastica aeroportuale consentirà agli stranieri di fare scalo al “Berlusconi” e proseguire, volendo, verso Palermo atterrando al “Falcone e Borsellino”: prima il finanziatore degli stragisti, poi le loro vittime. Altri suggestivi accostamenti potranno sorgere fra il Berlusconi e il Sandro Pertini, o il Cristoforo Colombo, o il Marco Polo, o il Guglielmo Marconi, o il Galilieo Galilei. Senza dimenticare lo scalo più importante di Parigi che i francesi, insensibili agli avanzi di galera, intestarono inspiegabilmente a Charles de Gaulle anziché ad Arsène Lupin. Ora restano da battezzare altri aeroporti. Linate, in omaggio alla par condicio, sarebbe perfetto per Marcello Dell’Utri, l’ex senatore e braccio destro di B. pregiudicato per concorso esterno in mafia, che fra l’altro proprio di lì decollò il 24 marzo 2014 per sfuggire all’arresto volando a Parigi e poi a Beirut, luogo prescelto per la sua latitanza. Lo scalo di Ciampino potrebbe andare a Francesco Lollobrigida per motivi più ferroviari che aeronautici. Pratica di Mare invece spetta di diritto a Chico Forti e a Giorgia Meloni, ex aequo.

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MA MI FACCIA IL PIACERE

l'editoriale di Marco Travaglio

08 luglio 2024

Deboli coi Forti/1. “Chico nel mirino: perché mi fate del male? Un detenuto lo accusa di aver chiesto aiuto per eliminare Travaglio e Lucarelli” (Libero, 6.7). Io quasi quasi gli darei la scorta.

Deboli coi Forti/2. “L’unica colpa di Chico: esser qui grazie a Giorgia” (Pietro Senaldi, Libero, 7.7.). Poi ci sarebbe pure l’omicidio che gli è valso l’ergastolo, ma quello è il meno.

Deboli coi Forti/3. “In ballo, dice il legale, c’è la credibilità di Forti ‘che ora qualcuno, per motivi che non abbiamo ben chiari, vorrebbe minare’” (Luca Fazzo, Giornale, 6.7). Ma no, tranquillo, avvocato, ci vuole ben altro che una banale richiesta di far fuori tre giornalisti per minare la credibilità di un assassino condannato all’ergastolo.

Amiconi. “È da un po’ di tempo che il Fatto si mostra molto più amico di Giorgia Meloni che dei leader dell’opposizione” (Piero Sansonetti, Unità, 4.7). Esattamente da quando la Meloni accolse Chico Forti da eroe e il Fatto titolò “Benvenuto assassino”.

Voto utile. “Altro che Ilaria Salis: candidate Giovanni Toti alle prossime Europee” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 1.7). Nella lista Chico Forti o in un’altra?

Scosse sismiche. “Francia, l’ora del giudizio che fa tremare l’Europa”, “Francia al voto, l’Ue trema” (Stampa, 30.6 e 7.7.). Sesto grado della Scala Cazzate.

Prestito d’uso. “Ora cresce l’ipotesi del ‘Draghi francese’. Caccia a un tecnico per superare lo stallo” (Repubblica, 3.7). Ma prestiamogli l’originale, no?

Occupy Left. “Il Movimento 5Stelle trova casa a Bruxelles. Accolti in prova per sei mesi nella Sinistra” (Stampa, 5.7). Finché la Salis la tiene occupata.

Vasi comunicanti. “I reati diminuiscono, ma i carcerati aumentano” (Mattia Feltri, Stampa, 6.7). Non resta che far diminuire i carcerati, per far aumentare i reati.

Par condicio. “Giustizia in tilt: il killer Bozzoli libero, Toti agli arresti” (Maurizio Belpietro, Verità, 4.7). “Paradossi italici: colpevoli in fuga e innocenti tenuti agli arresti” (Pietro Senaldi, Libero, 4.7). Siccome ne è scappato uno, fate scappare anche l’altro.

Abuso d’ufficio. “Sui premi sto con l’abusato Flaiano: non basta rifiutarli, bisogna non meritarli” (Francesco Merlo, Repubblica, 4.7). Talmente abusato che era Leo Longanesi.

Leccornie. “Nuove ambizioni intorno al centro” (Stefano Folli, Repubblica, 6.7). Il titolo è talmente arrapante che non vedi l’ora di perderti l’articolo.

Quarta abbondante. “La Quarta Via. Il Changed Labour” (libro di Lia Quartapelle, Filippo Sensi, Pietro Bussolati e Diego Castagno allegato al Riformista, 6.7). Se lo scriveva Lia Quintapelle, lo intitolavano “La Quinta Via”.

Renzon. “Il nervosismo di alcuni ex colleghi è comprensibile: noi vogliamo fare ai dem quello che Macron ha fatto ai socialisti. Vogliamo assorbirne il consenso per allargare al centro e alla destra moderata. Il disegno è dichiarato e io penso che nei prossimi tre anni si realizzerà” (Matteo Renzi uscendo dal Pd e fondando Italia viva, Stampa, 13.11.2019). “Renzi apre al Pd: ‘Schlein segue un percorso intelligente. Il futuro di Italia Viva? O alleata con il centrosinistra o un nuovo Terzo Polo’” (Riformista, 3.7.2024). Lo portano via.

Parole grosse. “Biden sta pensando al ritiro” (Stampa, 4.7). Già il fatto che stia pensando è una buona notizia.

Bilanci. “Jill Biden: ‘Quel dibattito non definisce i 4 anni da presidente di Joe’” (Repubblica, 2.7). Che infatti sono molto peggio.

Gombloddo. “Enrico Boselli: ‘D’Alema voleva farci sparire’” (Corriere della sera, 7.7). Poi lui ci riuscì benissimo da solo.

Trust di cervelli. “‘Cambiare i leader non basta, riformisti uniti sull’agenda’ dice Lombardo (Az)” (Riformista, 6.7). Lo dicesse un altro, stica**i. Ma se lo dice Lombardo (Az), chapeau. A proposito: chi è Lombardo (Az)?

Il titolo della settimana/1. “Perché non voto questa sinistra” (Bernard-Henry Lèvy, Repubblica, 30.6). Per farla vincere?

Il titolo della settimana/2. “Marche: ‘L’amore degli americani per i criminali favorisce The Donald’” (Stampa, 30.6). Che strano: quattro anni fa favorì Joe.

Il titolo della settimana/3. “Colombani: ‘Marine moderata solo per finta: è una filorussa, contro gli stranieri’” (Stampa, 1.7). Infatti i russi sono tutti francesi.

Il titolo della settimana/4. “Noi dobbiamo tifare Francia” (Federico Fubini, Corriere della sera, 6.7). Mo’ me lo segno.

Il titolo della settimana/5. “Biden, l’ipotesi del passo indietro” (Giornale, 1.7). “Jill incoraggia Biden: ‘Vai avanti’” (Repubblica, 1.7). Sempre che riesca a muoversi.

Il titolo della settimana/6. “Kamala Harris l’erede naturale” (Gianni Riotta, Repubblica, 4.7). È fuori di testa almeno quanto Biden.

Il titolo della settimana/7. “Biden: ‘Mi ritiro solo se me lo chiede Dio’” (Repubblica, 7.7). Già, ma poi vai a capire cosa ti dice.

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APPRENDISTI STREGONI

l'editoriale di Marco Travaglio

09 luglio 2024

Non vorremmo disturbare i festeggiamenti per la nuova “Rivoluzione francese” dell’astuto Macron che, almeno secondo Repubblica, avrebbe salvato la Francia e l’Europa e decapitato la Le Pen. Ma a noi pare che i pericoli siano ancora tutti incombenti; che la Le Pen mantenga la testa al solito posto, cioè sul collo; che Macron si confermi il politico più stupido del bigoncio, riuscendo a dimezzare i suoi seggi e a issare i due peggiori nemici – Mélenchon e Le Pen – a vette mai viste; e che per trovare qualcuno più ridicolo di lui occorra venire in Italia, l’unico Paese in cui passa ancora per un genio e la sinistra che perde sempre si consola con le vittorie altrui e s’illude di importarle ignorando le differenze. La prima è che qui, a parità di legge elettorale, nessun candidato si ritirerebbe in nome di un principio: lo “spirito repubblicano” o il “senso dello Stato” (ignoto almeno quanto lo Stato). La seconda è che qui la pregiudiziale antifascista non funziona, altrimenti B. non avrebbe vinto nel ’94 coi missini di Fini (che peraltro si rivelò molto meno autoritario di lui). E con Meloni, La Russa&C. il centrosinistra fece bicamerali, riforme bipartisan e il governo Monti. Nel 2022, quando Letta lanciò l’allarme fascismo contro la Meloni, si scordò di opporgli un Cln con l’odiato Conte e rifiutò persino di far votare M5S in una ventina di collegi in bilico al Sud (sennò ora la Meloni non avrebbe la maggioranza al Senato).

Ma, se importare la Francia in Italia è impossibile, qualcuno vorrebbe importare l’Italia in Francia. Fini pensatori macroniani ci invidiano i governi tecnici di Monti e Draghi. Tant’è che, per uscire dallo stallo, Macron medita di rifilare ai francesi un’ammucchiata all’italiana che ribalti le elezioni tenendo fuori i vincitori e dentro gli sconfitti: si emargina Mélenchon, si staccano dal Fronte i socialisti, li si accrocca coi macronisti e i gollisti superstiti e si spera che passi ’a nuttata, cioè che gli elettori si rassegnino a un governo senza il popolo, anzi contro il popolo. Tanto, ricorda Houellebecq, i ceti popolari anti-élite sono solo “sdentati” (lo disse Hollande) e “miserabili” (Hillary Clinton). Lo diceva anche Napolitano: se il popolo vota “male”, è colpa del suffragio universale. Infatti, quando cadde B. nel 2011, non ci mandò alle urne, sennò il popolo bue avrebbe votato 5Stelle: allestì il governissimo Monti. Purtroppo nel 2013 il M5S vinse lo stesso. Allora si fece rieleggere per lasciare al potere quelli che avevano perso: Pd, Centro e FI (governo Letta). Restarono fuori 5Stelle, Lega e i neonati Fratelli d’Italia: i partiti che poi stravinsero le Politiche del 2018, le Europee del ’19 e le Politiche del ’22. Pensavamo che, morto lui, gli apprendisti stregoni fossero finiti. Non avevamo calcolato Macron.

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LA NATO LAVA PIÙ BIANCO.

l'editoriale di Marco Travaglio

10 luglio 2024

Gli “esperti” che scambiano i loro desideri per la realtà e viceversa si stanno superando. Dicono che quel genio di Macron ha vinto con la “mossa del cavallo” di sciogliere l’Assemblea nazionale dopo la debacle alle Europee. Quindi, siccome ha quasi dimezzato i seggi del suo partito Renaissance (da 170 a 99) e falcidiato gli alleati Mouvement démocrate e Horizons (da 81 a 59), il suo obiettivo era martellarsi i c*gli**i per perdere la maggioranza assoluta e pure quella relativa. Ma il diabolico piano del piccolo Napoleone includeva anche il record di consensi ai due acerrimi nemici che vogliono radere al suolo tutto ciò che ha fatto: la Le Pen del Rassemblement national, divenuto il primo partito dell’Assemblea balzando da 88 a 125 seggi, più un destro sfuso e i 17 Repubblicani ribelli di Ciotti (totale: 143); e Mélenchon, trascinatore del Fronte popolare che ora ha la maggioranza relativa (184 seggi) con la sua France Insoumise (da 75 a 78), i Socialisti (da 31 a 69), i Verdi (da 23 a 28) e i Comunisti (da 22 a 9). Quindi capite bene di quale genio stiamo parlando. Uno che, per impapocchiare un governo, dovrà tener fuori i leader della prima coalizione (Mélenchon) e del primo partito (Le Pen), ma soprattutto i loro elettori, col rischio di non combinare nulla, scontentare tutti e regalare l’Eliseo nel 2027 (o prima) a uno dei due.

Ma chi vota è una variabile indipendente per gli esperti onanisti, chiusi nelle loro stanzette a giocarsi a Risiko il governo francese. Infatti hanno già smesso di esultare per lo scampato fascismo e iniziato a insultare Mélenchon perché ha preso troppi voti antifascisti e disturba le loro pippe. Il loro vero discrimine non è mai stato tra fascismo e antifascismo, di cui s’infischiano, ma fra bellicismo (lo chiamano “atlantismo”) e pacifismo (lo chiamano “putinismo”). La Le Pen non li allarmava perché è fascista (gli atlantisti adorano da sempre i neofascisti -vedi i golpe in Sud America e in Grecia, le stragi nere, il battaglione Azov – purché stiano dalla parte giusta), ma perché contesta la Nato. Infatti detestano con pari odio l’“antifa” Mélenchon perché critica la Nato e vuole pure ridurre le diseguaglianze anziché aggravarle come Macron. Lo confessano, con commovente impudenza, i Bibì e Bibò delle Sturmtruppen: Franco sul Corriere e Folli su Repubblica, allarmatissimi che qualcuno confonda Meloni e Le Pen. La prima è buona perché sta con Kiev e Washington, anzi ora dovrebbe suicidarsi alleandosi col Ppe. La seconda è cattiva perché è “filorussa” e non si decide a fare l’“evoluzione atlantica”, cioè a diventare Macron. Entrambe potrebbero pure indossare la divisa SS e marciare al passo dell’oca, purché in direzione della Nato. Che è come il Dash: lava così bianco che più bianco non si può.

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Dino

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IL PD È TORNATO, PURTROPPO

l'editoriale di Marco Travaglio.

11 luglio 2024

Bisogna ringraziare il Pd, perché ogni tanto fa il Pd e ci ricorda cos’è il Pd: quel partito che, anche quando portava altri nomi, ci ha regalato 10 anni di governi B. (evitando di opporglisi) e 4 e mezzo di governi con B. (alleandosi con lui), porcate sulla giustizia come il “giusto processo”, la bozza Boato, l’immunità extra-large, il lodo Maccanico, l’abolizione dell’ergastolo e dei pentiti di mafia, le proroghe a Rete4 in barba alla Consulta e varie schiforme costituzionali: quella renziana bocciata dagli italiani; il Titolo V che ora consente alla destra di rifilarci l’Autonomia differenziata; e il premierato, proposto dall’Ulivo in Bicamerale, che ora la destra copia e traduce in legge. Si dirà: acqua passata, ora c’è il nuovo Pd di Elly Schlein e guai a criticarlo: il popolo chiede unità. Magari. Il Pd continua a votare con le destre contro i giudici che chiedono di usare intercettazioni e chat nei processi ai parlamentari. E l’altroieri si è superato con l’ordine del giorno Serracchiani per cancellare parte della legge Severino (votata da tutti nel 2012) e lasciare al loro posto gli amministratori regionali, provinciali e comunali condannati in primo grado, salvo per delitti “di grave allarme sociale”: chi spara a qualcuno o fa rapine a mano armata o spaccia droga deve andarsene; chi intasca solo tangenti o arraffa soldi pubblici o abusa del suo potere può restare fino alla Cassazione. A FI e Lega non è parso vero, infatti hanno votato Sì, mentre il M5S ha votato No e persino FdI si è astenuto.

Vien da chiedersi con che faccia il Pd chieda le dimissioni di Toti, agli arresti domiciliari senza neppure una condanna in primo grado. La risposta è semplice: con la faccia del Pd. Che fino all’altro ieri adorava pure l’Autonomia differenziata, tant’è che Bonaccini la chiese per l’Emilia Romagna al governo Gentiloni nel 2018, senza fare retromarcia neppure quando la Schlein divenne sua vice. “Un accordo di portata storica a beneficio di un territorio virtuoso”, esultò il sito del Pd. E il ministro Boccia esaltò l’Autonomia come “nuovo patto sociale per la lotta alle disuguaglianze, al Nord come al Sud”. Ora il Pd, senza aver mai chiesto scusa né spiegato perché ha cambiato idea, sale sulle montagne della Resistenza referendaria all’Autonomia differenziata. Ma è tutta scena. L’altro ieri, alla Regione Campania, il Pd ha votato due quesiti: uno (che rischia di non passare alla Consulta) per l’abrogazione totale della legge Calderoli; l’altro per l’abrogazione parziale, ma molto parziale, talmente parziale da far gridare il costituzionalista Massimo Villone all’“imbroglio politico” di chi “finge di voler bloccare Calderoli e in realtà gli spiana la strada”. Se questo è il partito-guida dell’opposizione, la Meloni può dormire fra due guanciali.

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