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Dino

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L'ALLIEVO E IL MAESTRO

l'editoriale di Marco Travaglio

15 novembre 2024

C’è qualcosa di commovente, ma anche di irresistibilmente comico, in un Paese che scopre all’improvviso le ingerenze straniere e i conflitti d’interessi dei padroni dei media nella politica. Soprattutto se quel Paese è l’Italia. A leggere le migliori gazzette, sembra che fino al 5 novembre, cioè alla rielezione di Trump con Musk incorporato, i magnati della finanza e dell’informazione fossero esiliati nello spazio su apposite astronavi impermeabili a qualsiasi contatto con i politici; che i governi occidentali decidessero in assoluta autonomia dalla Casa Bianca, seguendo l’esclusivo interesse dei propri cittadini; e che tutte le tv, i giornali e i social fossero in mano a editori puri interessati solo alla libera informazione, finché un brutto giorno Elon Musk acquistò Twitter chiamandolo X (volete mettere Facebook: provate a scrivere “Gaza”, o un aggettivo poco carino che non sia contro i russi, e vedrete che fine fanno). Per 30 anni abbiamo avuto premier o capo dell’opposizione un plurimputato e finanziatore della mafia, proprietario di tre tv, di una banca-assicurazione, del primo gruppo editoriale (peraltro rubato al legittimo proprietario con una sentenza comprata), che legiferava sui suoi reati, processi e affari; e quando qualcuno chiedeva di dichiararlo ineleggibile in base alla legge del 1953, si sentiva rispondere che “le tv non spostano voti” dai liberali alle vongole che ora scoprono i conflitti d’interessi di Musk (sufficientemente lontano per poterne parlar male).

Il presidente dell’Anm e il Pg di Napoli, nel denunciare giustamente le norme e gli attacchi del governo contro i magistrati, dicono che “è peggio che ai tempi di Berlusconi”. Una scempiaggine che si spiega solo con la pandemia da amnesia: sennò qualcuno ricorderebbe le 80 leggi ad personam e ad aziendam, i magistrati paragonati alla banda della Uno Bianca, alle Br e al cancro, definiti “matti, antropologicamente diversi dalla razza umana”, minacciati con assalti di ministri e parlamentari al Palazzo di Giustizia di Milano, spiati, dossierati (con giornalisti e politici sgraditi) dal Sismi, insultati, calunniati, pedinati e messi alla berlina a reti Mediaset (e poi Rai) unificate, le epurazioni di Montanelli dal suo Giornale e di Biagi, Santoro, Luttazzi&C. dalla Rai. Nei primi anni qualcuno, di sinistra ma soprattutto liberale (Montanelli, Sartori, Cordero e pochi altri), denunciava quel regime pluto-mediatico. Poi passò la linea del “dialogo”, delle “riforme insieme” e infine dei “governi insieme” (Monti, Letta e Draghi). Il monumento vivente al conflitto d’interessi continuò a salire e a scendere dal Quirinale anche da pregiudicato. E ora chi lo rimpiange dà lezioni di conflitto d’interessi a Musk: che cos’è, uno scherzo?

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È ANDATA DI LUSSO

l'editoriale di Marco Travaglio

16 novembre 2024

Siccome la Consulta ha ritenuto incostituzionali ben 7 norme della sua legge sull’Autonomia differenziata, svuotandola da cima a fondo e lasciandone in vita solo il titolo, Roberto Calderoli si è congratulato con se stesso per lo strepitoso successo: “È un passaggio storico, non l’hanno rigettata, hanno confermato la costituzionalità della legge”. Anche Luca Zaia si è subito complimentato: “Autonomia confermata dalla Corte, riforma in linea con la Carta”. Un trionfo. Escludendo che un ministro e un presidente di regione non abbiano capito la sentenza, peraltro riassunta in parole semplici da un comunicato, tanto sollievo si può spiegare in un solo modo: Calderoli si conosce e i suoi lo conoscono così bene da esultare per il sol fatto che qualche virgola del suo capolavoro è scampata alla mannaia. Un po’ come quando B. veniva condannato a qualche anno per falso in bilancio e/o frode fiscale e Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in mafia e non riuscivano a trattenere il tripudio: “Tutto qua? Che sarà mai. Vedete che, in fondo in fondo, non era nulla di grave?”. Siccome sapevano di sé cose che i giudici ignoravano, si aspettavano sempre – come minimo – l’ergastolo. Lo stesso sragionamento ha fatto di recente il prode Giovanni Toti, patteggiando 2 anni e qualche mese di carcere per corruzione e finanziamento illecito e poi spacciando la cosa per un’assoluzione piena. Anzi, per un alibi di ferro: “Sono stato accusato di essere Al Capone, poi è uscito fuori che non ho mai preso un euro” (e allora perché ha pregato il giudice non di assolverlo al processo, ma di infliggergli una “pena detentiva” con interdizione dai pubblici uffici senza processo?). O meglio, per un onorevole pareggio: “Sì, ho patteggiato, ma lo ha fatto anche la Procura” (testuale).

Idem per Calderoli sull’Autonomia. Lo statista bergamasco è un geniale inventore, una via di mezzo fra Archimede Pitagorico ed Elon Musk, rimasto purtroppo finora incompreso. Negli anni 90 inventò il tallero padano “calderolo”, che doveva sostituire la lira e poi l’euro: purtroppo non funzionò. Allora si spremette le meningi e inventò la legge elettorale del centrodestra, varata alla vigilia delle elezioni del 2006 per non farle vincere al centrosinistra, che poi le vinse proprio grazie a quella (col Mattarellum avrebbe perso). Lui allora la definì “una porcata” e da quel momento fu per tutti il “Porcellum”: fino al 2013, quando la Consulta la dichiarò incostituzionale. Ora, siccome Calderoli è una garanzia, gli han fatto scrivere l’Autonomia, a quattro mani con quell’altro genio di Cassese. Risultato: 7 profili di incostituzionalità in una sola legge. E tutti saltellano perché poteva andare peggio. Potevano bocciargli pure la punteggiatura.

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SCENEGGIATA DI PACE

l'editoriale di Marco Travaglio

17 novembre 2024

Il giro di telefonate fra Trump, Putin e Scholz sull’Ucraina invasa 1.000 giorni fa ha tutta l’aria di una sceneggiata per salvare qualche faccia e prepararla a sacrifici decisi da tempo. Da ben prima dell’arrivo di Trump. Che Kiev non sia in grado di recuperare le regioni occupate e/o annesse dai russi (circa il 19% del territorio) lo si sa da due anni: lo disse il generale americano Milley nel novembre 2022; lo ribadì il flop della controffensiva del 2023, in cui gli ucraini riuscirono a perdere più terreno di quello riconquistato; e lo conferma l’avanzata russa del 2024, che ha pressoché completato la conquista del Donbass, si è allargata negli oblast di Zaporizhzhia e Kharkiv e ora minaccia di dilagare verso il centro del Paese. Malgrado le centinaia di miliardi occidentali, Kiev non ha quasi mai smesso di perdere sul campo, anzi più potenti sono le sue armi, più ampio è il territorio che serve a Putin per mettere al riparo le sue regioni di frontiera. Quella di Kursk è stata violata in agosto, col blitz-autogol che doveva distrarre truppe russe dal fronte e invece ha distolto quelle ucraine, che ora stanno per essere ricacciate indietro, mentre negli ultimi due mesi Mosca si è presa altri 1.200 kmq di Donbass. Tutti conoscono l’entità del disastro e sanno che per non farlo diventare catastrofe serve un compromesso: i russi avranno meno del 19% che occupano ora, ma più del 7% che controllavano prima dell’invasione (Crimea e parte del Donbass); Kiev non entrerà nella Nato, ma forse aderirà all’Ue (ove mai i 27 vogliano accollarsi i debiti di uno Stato fallito da anni e ora semidistrutto); e una garanzia di difesa per Kiev. Principi già accettati da Putin e Zelensky a Istanbul, nel marzo-aprile ’22, prima che Regno Unito e Usa facessero saltare l’intesa sul più bello.

Anche Biden, negli ultimi mesi, aveva tirato il freno sulle armi: quella guerra è persa e sopravanzata da ben altri fronti (Medio Oriente e Cina). Lo sa Scholz che, in crisi economica e di consensi, iniziò a trattare ben prima di Trump. Lo sa Putin, che finge di diffidare di Trump per non scoprire anzitempo le carte. E lo sa pure Zelensky, che da giugno auspica un negoziato con Putin dopo averlo vietato per legge. E ora finge di arrabbiarsi se Scholz chiama Putin e si sente dire un’ovvietà (“Si parte dai risultati sul campo di battaglia”). Il suo sdegno è a uso interno, rivolto ai nazionalisti e nazisti ucraini che han sempre bloccato ogni negoziato, da Minsk in poi, e ora vanno zittiti con un argomento piuttosto persuasivo: “Trump ci taglia i fondi e ci costringe a trattare”. Restano da avvisare gli scemi di guerra europei, tipo Ursula e gli ultimi giapponesi della vittoria immaginaria: a furia di respingere il compromesso, lo subiranno. Regalandone il merito a quei “fascisti” di Trump e Orbán.

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MA MI FACCIA IL PIACERE

l'editoriale di Marco Travaglio

18 novembre 2024

Il mondo al contrario. “L’aquila sul petto? Un tatuaggio di pace” (Alessandro Giuli, Stampa, 16.11). Se voleva la guerra, si tatuava una colomba.

Nordiadamus. “Nordio: autonomia, niente referendum” (Corriere della sera, 17.11). “La conferma di Nordio: referendum eliminato” (Giornale, 17.11). La conferma che si fa di sicuro.

Fontanadamus. “La riforma è perfettamente costituzionale. Sapere che la legge è rispettosa della Costituzione ci ha molto rasserenati” (Attilio Fontana, Lega, presidente Regione Lombardia, Giornale, 16.11). Disse il laureato in giurisprudenza coi punti della Miralanza.

Facciamo i penultimi. “Oggi, a Torino, ho fatto la spesa al banco alimentare. Grazie a tutti i volontari che ogni giorno con il loro lavoro aiutano a far mangiare più di 110mila persone. Siete degli angeli. Sarò sempre dalla parte dei più deboli, di chi ha bisogno, degli ultimi” (Antonio Tajani, presidente FI, X, 16.11). Infatti prima s’è iscritto a Forza Italia, poi ha abolito il Reddito di cittadinanza, infine ha salvato le banche dalla tassa sugli extraprofitti.

Superballus. “Caro Presidente, mi congratulo con te per l’implementazione… del Pnrr… delle riforme e degli investimenti. L’estensione degli incentivi per il miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici (Superbonus, ndr) rappresenta un significativo contributo alla transizione ecologica” (Ursula von der Leyen, presidente Commissione Ue, lettera al premier Mario Draghi, 14.4.2021). “Il Superbonus ha avuto un impatto più negativo che positivo” (Paolo Gentiloni, commissario Affari Economici Ue, 15.11.2024). Non capisce il tedesco, o i due non si parlano?

Noi vogliam Mario. “Sarà Draghi il vero stratega anti-Trump?” (Riformista, 13.11). “Commissione Ue in stallo, Ursula balla. Aria di dimissioni? C’è l’ipotesi Draghi… Nei corridoi di Bruxelles circola con insistenza il nome di Supermario come piano B” (Riformista, 16.11). “Non si capisce come un’Europa così debole e divisa possa permettersi di tenere in panchina Mario Draghi” (Aldo Cazzullo, Corriere della sera, 17.11). Ma infatti: i popoli europei e quello americano vomitano le élite e non si capisce perché non farli eccitare un po’ con un bel banchiere mai eletto.

Buchi neri. “Bibbiano buco nero della democrazia. La premier Meloni venga e si scusi” (Matteo Renzi, senatore Iv, Dubbio, 14.11). Per aver depenalizzato l’abuso d’ufficio e salvato dal processo l’ex sindaco del Pd con i voti di Renzi.

Caltanews. “Emendamenti bipartisan per i fondi della Metro C. Centrodestra e centrosinistra uniti per ripristinare nella Manovra le risorse per la tratta tra Clodio e Farnesina. Gualtieri: ‘Ringrazio i parlamentari e la premier’” (Messaggero, 13.11). Ma il costruttore della Metro C non c’entrerà mica qualcosa col Messaggero?

Crash finale. “Giubileo, cantieri al rush finale” (Repubblica, 15.11). A 40 giorni dal Giubileo, ne hanno ultimati 4 su 204 a 40 giorni dall’inizio del Giubileo: un trionfo.

Processo telepatico. “Daniela Santanché: ‘Turismo e processi: vi dico tutta la verità’” (Stefano Zurlo, Giornale, 11.11). Oste, com’è il vino?

Esodo biblico. “La bomba X. Musk ha preso la rabbia globale e l’ha amplificata. Quel social non mi appartiene più, trasloco su Bluesky” (Riccardo Luna, Stampa, 15.11). E adesso chi lo dice a Elon?

Chiarissima/1. “Walter Siti si domanda – novello Mr. Prufrock, le cui inibizioni non sono erotiche, ma estetiche – se ha avuto senso il suo guardare, visto che tutti i corpi – forse quello degli atleti e delle atlete no, ma chi lo sa – scompariranno sia in una prospettiva storica che ‘naturale’, nel senso che, potendo essere sostituiti e rinnovati, pezzo a pezzo, dentro e fuori, sono corpi fungibili. Ma è mai esistita la natura?” (Chiara Valerio, Repubblica, 4.11). Ah saperlo.

Chiarissima/2. “In chiusura avverte: ‘non credetemi quando parlo di corpi’, e verrebbe da aggiungere e ‘al resto?, dobbiamo crederle quando parla del resto?’. La risposta è sì, certo. Non a ciò che dice, ovviamente, ma a come lo dice. C’era una volta il corpo perché c’era il come e non solo la cosa, il momento, la foto, l’adesso” (Valerio, ibidem). La portano via.

I titoli della settimana/1. “Scarpinato, De Raho e quel ‘bollino’ di antimafiosità che non regge più”. “Ora De Raho dice: ‘Il dossieraggio è contro di me’. Ah, come il Cav…” (Tiziana Maiolo, Dubbio e Riformista, 14 e 15.11). Uno finanziava la mafia, gli altri due la combattono: tre gocce d’acqua.

Il titolo della settimana/2. “Mattarella: ‘Orgogliosi di essere nella Nato’” (Messaggero, 12.11). Ma esattamente noi chi?

Il titolo della settimana/3. “In crociera per 4 anni: la tentazione degli americani in fuga da Trump” (Repubblica, 13.11). Ma va’ a ciapà i ratt.

Il titolo della settimana/4. “L’idea di Forza Italia: lanciare Letizia Moratti a Milano” (Giornale, 12.11). Ma non si esclude un nome ancora più innovativo: Pillitteri.

Il titolo della settimana/5. “Casaleggio: ‘Mio padre era come Musk mentre Conte non lo sarà mai’” (Foglio, 15.11). Gné gné gné.

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2022: LA PACE SABOTATAl

l'editoriale di Marco Travaglio

19 novembre 2024

Mille giorni fa la Russia invadeva l’Ucraina. Ma la guerra civile fra i governi di Kiev e le popolazioni russofone e russofile nel Sud-Est del Paese dura ormai da oltre 10 anni: dalla cacciata del presidente neutralista Viktor Yanukovich nel 2014 a furor di piazza, di squadroni della morte e cecchini filoccidentali, vissuta dai filorussi come un colpo di Stato; e poi dal tradimento dei due accordi di Minsk, firmati con Mosca e mai attuati dai governi di Petro Poroshenko e Volodymyr Zelensky, ansiosi di entrare nella Nato. Ho ricostruito in sintesi l’intera storia nel mio nuovo libro Ucraina, Russia e Nato in poche parole (ed. PaperFirst), da oggi in edicola col Fatto, nelle librerie e nelle piattaforme online. Qui anticipo il paragrafo sugli accordi di Istanbul, che portarono Mosca e Kiev a un passo dalla firma della pace poche settimane dopo l’invasione del 24 febbraio 2022 e saltarono sul più bello: ecco come e perché.

8 marzo 2022. I presidenti cinese Xi Jinping e turco Recep Erdogan, che come il premier israeliano Naftali Bennett rifiutano di armare Kiev e sanzionare Mosca, si propongono come mediatori. Dal 10 marzo i negoziati dalla Bielorussia si sposteranno ad Antalya, in Turchia. Zelensky, intervistato dall’americana Abc, fa un’importante apertura che un mese prima avrebbe evitato la guerra: “Ci siamo resi conto che la Nato non è pronta ad accettare l’Ucraina. L’Alleanza teme un confronto con la Russia”. Quanto a Crimea e Donbass, “possiamo discutere con Putin e trovare un compromesso sulle regioni e le repubbliche occupate”.

10 marzo. Primo incontro ad Antalya fra le delegazioni ucraina e russa, guidate dai ministri degli Esteri Kuleba e Lavrov. Lavrov fa capire che l’obiettivo della guerra non sono l’intera Ucraina e il suo governo, ma l’indipendenza del Donbass e la neutralità di Kiev.

11 marzo. Putin parla di “qualche progresso nei negoziati”. Kuleba smentisce: “Zero progressi, non so di cosa parli”.

12 marzo. Zelensky nota “un approccio fondamentalmente diverso da Mosca” e si dice “felice di avere un segnale dalla Russia”.

13 marzo. Il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavusoglu dice che “le posizioni si sono ravvicinate”. L’ucraino Podoljak conferma: “La Russia è più vicina alle nostre richieste e ha cominciato a parlare in modo costruttivo”. Le due delegazioni iniziano a scambiarsi bozze per un trattato di pace.

15 marzo. Zelensky dice addio alla Nato: “Da anni si parla di porte aperte dell’Ue e della Nato all’Ucraina, ma abbiamo pure sentito dire che non possiamo entrarci e dobbiamo ammetterlo”. Parole che, dette un mese prima, avrebbero forse evitato l’invasione. Ma ora aiutano il negoziato.

16 marzo. Il Financial Times svela il piano di pace in 15 punti emerso al tavolo russo-ucraino in Turchia: cessate il fuoco da ambo le parti e ritiro delle truppe russe; rinuncia di Kiev a entrare nella Nato e a ospitare basi militari o sistemi d’arma stranieri; garanzie di sicurezza per l’Ucraina da Usa, Gran Bretagna e Nato; congelamento delle dispute su Donbass e Crimea da risolvere in futuro. Biden però non gradisce e definisce Putin “criminale di guerra” per gli attacchi su Mariupol.

17 marzo. Kiev è molto ottimista sui negoziati turchi: “Ora la soluzione è possibile. Dieci giorni per la pace”.

20 marzo. Il ministro degli Esteri turco è sempre più ottimista: “Un accordo è vicino”.

21 marzo. Dopo un nuovo round di negoziati in Turchia, Zelensky dà per scontato un esito positivo: “I compromessi tra Ucraina e Russia saranno sottoposti a un referendum in Ucraina. Possono essere messi ai voti le garanzie di sicurezza e lo status dei territori temporaneamente occupati in Donetsk, Lugansk e Crimea”.

22 marzo. Zelensky invita il Papa a Kiev, “garante della sicurezza” post-negoziato.

25 marzo. Mosca chiarisce lo scopo della “operazione speciale”: “Le forze russe si concentreranno sulla completa liberazione del Donbass”. A Biden ne scappa un’altra: “Opzione nucleare? In circostanze estreme”.

26 marzo. Newsweek svela un rapporto top secret del Pentagono che conferma le reali intenzioni di Putin: fin dall’inizio gli Usa sanno che la sua è una “guerra a bassa intensità” e “per ora evita inutili stragi e non attacca tutte le città” perché “punta al Donbass”, non certo a conquistare l’intera Ucraina, né tantomeno ad attaccare l’Europa. Ma, spinto dal Congresso e dalla lobby delle armi, Biden ignora quelle indicazioni e continua a sabotare il negoziato: “Putin è un macellaio e un tiranno, non può restare al potere”. Un portavoce della Casa Bianca è costretto a precisare: “Biden non stava parlando di un regime change in Russia”. Il portavoce di Erdogan: “Se tutti bruciano i ponti con la Russia, chi parlerà con Mosca a fine giornata?”. Seguono le prese di distanze di Blinken, Borrell, Macron e Johnson. Solo Draghi tace.

27 marzo. Nuova apertura di Zelensky a un compromesso con Mosca: “Neutralità e accordo su Crimea e Donbass”.

28 marzo. Mentre Lavrov e Kuleba si rivedono a Istanbul, Zelensky rilascia un’intervista a giornalisti indipendenti russi: “Lo status neutrale e non nucleare dell’Ucraina siamo pronti ad accettarlo: se ricordo bene, la Russia ha iniziato la guerra per ottenere questo. Poi servirà discutere e risolvere le questioni di Donbass e Crimea. Ma capisco che è impossibile portare la Russia a ritirarsi da tutti i territori occupati: questo porterebbe alla Terza guerra mondiale”. Ed ecco subito una nuova provocazione per esacerbare gli animi. Il quotidiano ultraconservatore americano Wall Street Journal sostiene che l’oligarca russo di madre ucraina Roman Abramovich, che partecipa con la delegazione di Mosca ai negoziati, è stato avvelenato con agenti chimici durante un incontro a Kiev il 3 marzo con due negoziatori del fronte opposto, anch’essi colpiti dagli stessi sintomi. Ma fioccano solo smentite.

29 marzo. A Istanbul l’avvelenato Abramovich assiste in ottima forma al discorso di Erdogan che accoglie le delegazioni di Mosca e Kiev. E il tavolo negoziale registra nuovi importanti progressi. Mosca dice di aver ricevuto da Kiev una proposta scritta che garantisce la “neutralità” e “denuclearizzazione” del Paese. Il documento, firmato dal capo delegazione ucraino Arakhamia, si intitola “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina” e si snoda su 18 articoli. Putin lo mostrerà nel 2024 incontrando una delegazione di leader africani. L’Ucraina si impegna a non entrare nella Nato; ma non rinuncia alla Ue, chiede garanzie internazionali per la propria sicurezza, anche con una No fly zone, e rinvia a un imminente vertice tra Zelensky e Putin il destino di Donbass e Crimea, da sottoporre poi a referendum in loco. La Russia chiede che l’Ucraina non ospiti basi militari straniere e per il resto non obietta su nulla, neppure sull’adesione alla Ue e sul ritiro delle proprie truppe. E, come segno di apertura, promette di abbandonare le zone di Kiev e di Kharkiv. Cosa che farà nei giorni seguenti. Le due delegazioni concordano un “comunicato” congiunto che riassume i punti di convergenza, da usare come base per il futuro trattato di pace. L’Ucraina sarà “perennemente neutrale e non nucleare”. Segue una lista di possibili “garanti” della sua sicurezza in caso di nuovi attacchi armati: i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu (Russia inclusa), Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia. Lasciando il Donbass all’imminente vertice Putin-Zelensky, le parti s’impegnano a “risolvere pacificamente la controversia sulla Crimea nei prossimi 15 anni”. Il ministro degli Esteri turco parla dei “più significativi progressi fatti finora”. Gli Usa restano scettici.

31 marzo. Il Corriere della Sera rivela: “Un asse anglo-americano sembra remare contro la trattativa: anzi, probabilmente punta a farla fallire, perché intravede come obiettivo strategico non tanto la fine della guerra quanto la sconfitta sul campo della Russia… La strategia attuale – spiegano a Downing Street – è continuare a sostenere l’obiettivo ucraino di respingere l’invasione…”. Anche il New York Times smentisce la narrazione atlantista: Putin non voleva affatto occupare l’intera Ucraina e non è passato a più miti consigli per la strenua resistenza popolare; sin dall’inizio puntava alla conquista del Donbass e al mantenimento della Crimea, ma ha alzato un polverone con i diversivi su Kiev e Kharkiv per fingere di volere tutto e poi trattare.

1° aprile. Bucha, sobborgo a 30 km da Kiev, torna in mano agli ucraini. Che l’indomani diffondono un video di almeno 20 cadaveri in abiti civili allineati lungo la strada principale e di altri 300-400 gettati in fosse comuni. Il 3 aprile Kuleba accusa i russi di un “massacro deliberato”. Governo e stampa internazionale parlano di rastrellamenti casa per casa, bambini usati come scudi umani, torture, stupri di donne e minori, fosse comuni, “pulizia etnica”. Mosca prova a negare e accusa Kiev di “provocazione per interrompere i colloqui di pace”. Guterres chiede che “un’indagine indipendente accerti una responsabilità effettiva”. Anche il Pentagono è prudente: “Non possiamo confermare in modo indipendente né confutare le affermazioni ucraine”. La verità probabilmente sta nel mezzo. I morti sono opera dei russi (se non avessero invaso l’Ucraina, quelle 300 o 400 persone sarebbero ancora vive) e le brutalità sono accertate, anche se è difficile distinguere fra civili giustiziati (ce ne sono, come mostrerà un filmato diffuso dal New York Times) e militari caduti in battaglia. Ma la fossa comune accanto alla chiesina di Bucha, ripresa dai satelliti ed esibita da tutti i giornali e tv, è in realtà il cimitero improvvisato del vicino ospedale che getta li#768; i corpi dei feriti di guerra che non ce l’hanno fatta. E la collocazione dei cadaveri, senza sangue e probabilmente uccisi settimane prima, disposti a distanza regolare sulla strada a favore di telecamere, fa sospettare una regia per moltiplicare lo choc.

5 aprile. Il mondo Nato esulta, sperando nella morte dei negoziati. Per Biden, non si tratta con Putin, “criminale di guerra che va processato all’Aja”. Stoltenberg proclama: “La guerra può durare anni, a Kiev servono armi pesanti”. Zelensky accusa i russi di “crimini di guerra” e li paragona all’Isis. Ma non chiude le porte al negoziato, anzi: “Tragedie del genere ti colpiranno sul polso mentre fai l’una o l’altra trattativa. Ma abbiamo ancora opportunità per compiere questi passi”. E incredibilmente le delegazioni russa e ucraina continuano a trattare 24 ore su 24 scambiandosi nuove bozze di accordo.

8 aprile. La Russia, come promesso agli ucraini a Istanbul, “ridisloca” nel Donbass le unità finora impegnate sul fronte Nord e nelle regioni di Kiev e Kharkiv.

9 aprile. È il giorno ipotizzato per la firma dell’accordo. Ma il premier britannico Boris Johnson si precipita a sorpresa a Kiev, primo leader del G7 a visitarla dopo l’invasione, in un viaggio avventuroso fra auto, elicottero, aereo militare e treno. Incontra Zelensky a quattr’occhi e blocca ogni ipotesi di negoziato con parole definitive. Versione dell’Ukrainska Pravda: “L’Occidente non sosterrà alcun accordo di pace”. Versione di Bennett: “Non negoziate e continuate a colpire Putin”. E pubblica sui social l’elenco dei nuovi armamenti da Londra, incitando il “leone” Zelensky a combattere “fino alla vittoria”.

12-15 aprile. Nuovi round di negoziati a Istanbul. Le due delegazioni discutono ancora della richiesta russa – indigesta per Kiev – di vietare per legge “il fascismo, il neonazismo, il nazionalismo aggressivo” e le riabilitazioni delle formazioni ucraine che combatterono contro l’Armata Rossa. Kiev promette di non limitare più l’uso della lingua russa sul suo territorio. Mosca si impegna addirittura ad “agevolare” l’ingresso dell’Ucraina nella Ue e non pretende più il riconoscimento della Crimea, anche perché il risolutivo incontro fra i due presidenti sulle questioni territoriali è dato per imminente: si parla di due settimane. Zelensky è disponibile a lasciare almeno parte del Donbass a Mosca. E Putin rinuncia alla demilitarizzazione totale del Paese. Ma restano ancora distanti le posizioni sulle dimensioni del futuro esercito ucraino (250 mila uomini per Kiev, solo 85 mila per Mosca). Ma soprattutto sulle modalità di intervento dei Paesi garanti. La penultima bozza del 12 aprile prevedeva che ciascuno avrebbe deciso autonomamente se e come difendere l’Ucraina. Ora invece Mosca chiede “una decisione concordata da tutti”, che le garantirebbe un diritto di veto sugli altri, inaccettabile per Kiev. Ma in una trattativa che ne ha superati ben altri, questi sono ostacoli facilmente appianabili continuando a negoziare. Invece, di punto in bianco, la delegazione ucraina lascia il tavolo per non tornarvi mai più. Le pressioni di Londra e Washington hanno avuto la meglio. E l’allontanamento delle truppe russe da Kiev e Kharkiv, con le promesse Nato di armi decisive, ha illuso Zelensky di poterle sconfiggere in Donbass.

Intervistato dalla tv zelenskiana “1+1”, il capodelegazione zelenskiano Arakhamia dirà nel novembre 2023: “I russi erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo accettato la neutralità: noi avremmo dovuto promettere di non aderire alla Nato. Questa era la cosa più importante per loro, il punto chiave. Tutto il resto era semplicemente retorica e ‘condimento’ politico sulla denazificazione, sulla popolazione di lingua russa e bla-bla-bla”. Ma il 9 aprile “quando siamo tornati da Istanbul” dal terz’ultimo giro di negoziati, “Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo dovuto firmare nulla con i russi, ma solo combattere e basta”. Un altro negoziatore ucraino, Oleksandr Chalyi, confermerà: “Eravamo molto vicini alla conclusione della guerra con un accordo di pace. Putin si era reso conto di avere sbagliato e ha fatto tutto il possibile per fare la pace con l’Ucraina. Ha deciso lui di accettare il Comunicato di Istanbul, completamente diverso dalle sue richieste precedenti”. Poi ci sono le parole dei leader mediatori. Erdogan: “L’opportunità storica che avrebbe salvato la vita di decine di migliaia di persone e impedito sofferenze e distruzioni è stata sprecata, anzi sabotata”. Bennett racconterà che al documento finale si era giunti dopo 17-18 bozze: “Putin era pragmatico e capiva totalmente le costrizioni politiche di Zelensky”, il quale mostrava un “parallelo pragmatismo”. Poi, dopo Bucha, “nessuno era più pronto a pensare in modo non ortodosso” e su spinta di Biden e Johnson prevalse “la legittima decisione degli occidentali di continuare a colpire Putin… Hanno bloccato la mediazione… Pensai che era sbagliato… Credo davvero che esistesse una chance per il cessate il fuoco”. Definitivo il giudizio di Oleksii Arestovych, allora consigliere di Zelensky, anche lui presente ai negoziati: “Erano stati cancellati i due accordi di Minsk 1 e 2, molto pericolosi per l’Ucraina. Quello era l’accordo migliore che avremmo potuto stipulare”.

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PAZZI + c*gli**i

l'editoriale di Marco Travaglio

20 Novembre 2024

Diceva Einstein: “Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”. La miglior definizione per le classi dirigenti occidentali, che da mille giorni perdono in Ucraina con la Russia (tanto i morti ce li mettono gli ucraini e i danni li pagano gli europei) e insistono nell’escalation pensando di vincere. Una follia che nasce dal progetto “neoconservatore” americano, trasversale a Repubblicani e Democratici, concepito 30 anni fa da un trust di cervelli convinto che non bastasse aver vinto la guerra fredda contro la Russia, ma bisognasse stravincerla. Come? Provocando Mosca con progressivi allargamenti della Nato a Est, in barba agli impegni assunti con Gorbaciov, e attaccando i suoi alleati in Europa (Serbia, Ucraina, Georgia), Medio Oriente (Iraq e Siria) e Africa (Libia), per attirarla in guerra, sconfiggerla, smembrarla, ridurla a potenza regionale, indebolire e rimettere al guinzaglio l’Europa, poi occuparsi della Cina. Il primo a teorizzare la follia nel 1992 fu Paul Wolfowitz, sottosegretario di Bush sr.. Fra i Dem la sviluppò nel ’97 Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la Sicurezza di Carter. E fra i Repubblicani il centro di ricerca “Progetto per un nuovo secolo americano”, con Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Bob Kagan. Temevano il neoimperialismo di Putin? No, Putin non c’era: fino al ’99 a Mosca regnava Eltsin, amicone di Usa e Ue, la cui Russia era financo partner della Nato. E lo rimase nei primi anni di Putin, presidente dal 2000.

Nel 2001 arriva Bush jr. e Rumsfeld, Cheney e Kagan diventano le sue anime nere, dall’Afghanistan all’Iraq. Obama si muove in scia: nel 2013 il suo vice Biden e il di lui consigliere Jake Sullivan inviano a Kiev la neocon Victoria Nuland, moglie di Kagan, a sobillare e finanziare la rivolta di piazza Maidan contro Yanukovich, presidente regolarmente eletto, ma sgradito agli Usa, al grido di Fuck Eu! (“Fanc**o l’Europa”). Inizia la guerra civile che dopo otto anni, complice l’annuncio su Kiev nella Nato, sfocerà nell’invasione criminale russa. Nel 2017 Trump caccia il Partito della Guerra: la Nuland lascia il Dipartimento di Stato e il marito Kagan passa dai Repubblicani ai Democratici. Tornano tutti nel 2021 con Biden presidente, incluso Sullivan, nuovo consigliere per la Sicurezza. Sono loro a muovere i fili di Rimbambiden (le famiglie Cheney e Bush fanno persino campagna per la Harris). Ora Trump sta per cacciarli di nuovo. Ed ecco il loro ultimo colpo di coda: il via libera fatto dare da Biden a Kiev per bombardare la Russia. Peggio di loro ci sono solo i vertici e i governi Ue che seguono un presidente scaduto e rimbambito per alimentare una guerra pensata contro l’Europa. Ma quelli non sono folli: sono c*gli**i.

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LE MONACHE URSULINE

l'editoriale di Marco Travaglio

21 novembre 2024

Abituati come siamo alle battaglie di minoranza, restiamo convinti che non basti prendere tanti voti per essere nel giusto. Anzi spesso è l’opposto. Eppure il lodo bo*****o – “Giorgia ha consenso, quindi ha sempre ragione” – viene applicato dai giornaloni al Pd di Elly Schlein che, siccome finora è andato benone alle Europee e alle Regionali, si è guadagnato un’assoluta immunità dalle critiche e alle domande sulla miriade di ambiguità che è il vero motivo del suo consenso. Dire tutto e il contrario di tutto o – più semplicemente – non dire niente assicura messi di voti da pacifisti e guerrafondai, atlantisti e multipolari, filorenziani e antirenziani, filogrillini e antigrillini, centristi e progressisti, filoisraeliani e antisraeliani, filopalestinesi e antipalestinesi, innovatori e conservatori, green e anti-green ecc. Ma la superc***ola schleiniana con scappellamento a sinistra e contemporaneamente al centro non può essere un programma o una strategia: solo una tattica di poco respiro, fino all’ora delle decisioni e delle scelte. E allora chi ha sempre tenuto posizioni chiare e nette, pagandone il prezzo, potrebbe essere premiato per la coerenza. Quell’ora è arrivata ieri a Bruxelles sul voto pro o contro Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo e commissario europeo.

Per mesi il Pd e tutto il Pse, che non fanno un plissé quando votano per la guerra, il riarmo e l’austerità a braccetto con la destra conservatrice, ci hanno raccontato che Fitto non passerà mai. Il capogruppo dem, Marlon Brando Benifei, non sentiva ragioni: “Fitto non può fare il vicepresidente esecutivo della Commissione”, “Von der Leyen rischia a nominare Fitto suo vice. Ci ascolti, o in aula rischia”. E l’Andrea Orlando furioso: “La delegazione del Pd a Bruxelles può votare per Fitto perché italiano o addirittura perché è pugliese tralasciando il fatto che fa parte di un partito e di un gruppo radicalmente antieuropei: in questo caso sarà compromesso il profilo europeista del Pd”. Chissà perché, più tonitruante e stentoreo era il No a Fitto, più una vocina ci sussurrava all’orecchio: “Quindi è un Sì”. Bastava seguire la scia di bava dei veri padroni del Pd: Mattarella, Draghi, Prodi, Gentiloni, Monti e le altre monache ursuline. Infatti ora, senza che nulla sia cambiato, si capisce finalmente il vero significato di quel no: un sì. E si tocca con mano la consistenza dell’Aventino dem contro l’orrido vicepresidente meloniano, sovranista e populista: quella di un budino sfatto. La stessa del leggendario Aventino dem contro TeleMeloni, che doveva tenere il Pd fuori dal Cda Rai e invece ci fece entrare un pidino travestito da Avs. Finché i sì sono no, i mai sono sempre (e viceversa) e la gente si beve tutto, buon per Elly. Ma quanto può durare?

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COME VOTEREI

l'editoriale di Marco Travaglio

22 novembre 2024

Alcuni lettori mi chiedono come voterei, sui quesiti della Costituente 5Stelle. Intanto, se fossi un iscritto, voterei a tutti i quesiti. Non ricordo, in Italia ma non solo, un’altra forza politica che si sia affidata totalmente alla base per decidere regole, nome, simbolo, programma, collocazione e alleanze. E non per finta: davvero. Parlando con diversi parlamentari 5S li ho trovati tutti atterriti dalla scelta di Conte – se folle o coraggiosa, lo sapremo domenica – di consegnare l’intero destino del Movimento (e quello suo personale) prima a 300 iscritti sorteggiati e poi agli 89 mila tesserati. Senza rete né paracadute. Nessuno sa quanti né come voteranno, ma sarebbe bizzarro se qualcuno vi rinunciasse: dopo 15 anni a parlare di democrazia diretta, nessuno dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di contare qualcosa, per poi magari lamentarsi di non contare nulla. Tantopiù che i quesiti sono aperti, senza i suggerimenti espliciti o subliminali delle vecchie votazioni sulla piattaforma Rousseau.

Programma. Se n’è parlato poco sui media, sempre interessati alle cose che non interessano alla gente (il garante e i 2 mandati, che non spostano mezzo voto). Le proposte su pace, lavoro, sanità, scuola, ricerca, ambiente, giustizia, evasione, cultura, informazione, beni comuni sono quasi tutte ottime, e andranno integrate con battaglie ancor più drastiche e dirompenti, fregandosene dell’accusa di populismo: come l’abolizione dell’immunità parlamentare e dei soldi pubblici ai media, la cacciata dei partiti dalla Rai e dalle Asl, il ritorno alla sanità pubblica nazionale sottratta alle regioni e alle convenzioni con i privati ecc. Tutte riforme da fissare in disegni di legge prima delle elezioni, per sottoporle agli aspiranti alleati come condizioni per eventuali patti di governo.

Nome e logo. Sono meno importanti del programma, ma aiutano a farlo conoscere: accanto alle 5 Stelle, che come ogni marchio di fabbrica di successo non vanno cambiate, si potrebbero aggiungere due parole che richiamino il popolo contro le élite e il cambiamento radicale: gli elettori snobbano destra e sinistra e votano chi parla al popolo per cambiare.

Collocazione. Il dibattito sul M5S di sinistra o né di destra né di sinistra serve a poco e interessa a pochissimi. Bene ha fatto Conte, nella carta dei valori, a definirlo “progressista”: progressismo oggi è cambiare in avanti per seguire i tempi nuovi e possibilmente anticiparli, conservando il poco da salvare e cancellando tutti i passi indietro fatti dal 2021 da Draghi&Meloni. Chi pensa che progressismo equivalga all’unione eterna al Pd non conosce il Pd che, essendo tutto e il contrario di tutto, spesso riesce a esprimere un solo movimento: il rigor mortis.

Fra le tre opzioni al voto degl’iscritti, la miglior definizione è “progressisti indipendenti”. La peggiore è “di sinistra”, nobile concetto tradito e violentato da troppi abusivi per significare ancora qualcosa.

Alleanze. Sarebbe assurdo vietarle “a prescindere”, così come renderle obbligatorie: dipende con chi e per fare cosa. Spetta al leader trattare eventuali accordi di governo con i partiti più vicini o meno lontani in un contratto chiaro come nel Conte-1 con la Lega e nel Conte-2 col Pd, e proporlo agli iscritti. Ma senza matrimoni indissolubili né atti dovuti. Se il Pd fosse quello di Zingaretti, pronto a mettersi in discussione, sarebbe giusto provarci; se è quello della Schlein, che vota per la guerra, le armi, il condono salva-grattacieli, Fitto e la commissione Ursula tutta bellicismo e austerità, e imbarca pure Renzi, o peggio se tornasse in mano a un Bonaccini o a un Gentiloni, alla larga. Meglio l’opposizione. Per Comuni e Regioni, dipende dal candidato e dai compagni di strada: con una Todde o una Proietti, sì a occhi chiusi. Con un Orlando o un Lorusso, mai nella vita: a costo di saltare un giro.

Classe dirigente. Giusta l’idea che non bastino più i clic delle primarie online: chi si candida deve seguire la Scuola di formazione.

Mandati. Nell’utopia di Casaleggio, i 2 mandati avrebbero dovuto contagiare tutti gli altri partiti. Non è stato così. E ciò che era un vantaggio è diventato un handicap che ha costretto i 5S a combattere con le mani legate dietro la schiena, rinunciando a figure che hanno sputato sangue e pagato prezzi altissimi per realizzare il programma, poi sono uscite di scena senza più portare il loro consenso personale. La regola è già cambiata col “mandato zero” negli enti locali. Ma non basta a evitare il paradosso del M5S che, alleandosi con altri, appoggia Orlando per il decimo mandato e non può ricandidare uno dei suoi al terzo. Un limite è giusto per evitare che si bivacchi in Parlamento per 40 anni: 3 o 4 mandati, magari intervallati e in ruoli diversi (sindaci e presidenti di Regione non equivalgono a parlamentari e consiglieri). Ma non come regola interna: come legge valida per tutti (come quella per Comuni e Regioni). Nell’attesa, basta tetti: su proposta del leader, a fine legislatura gli iscritti votano chi ricandidare in base al lavoro svolto, nelle assemblee elettive e sul territorio.

Garante. Essendo le monarchie assolute tramontate da un pezzo e il Marchese del Grillo un’invenzione comica, un garante a vita, non elettivo e insindacabile non ha senso. Ce l’avrebbe un garante eletto a tempo, anche rieleggibile in base al rendimento, e persino retribuibile: potrebbe essere ancora Grillo, se però andasse a votare (possibilmente per il M5S) e facesse campagna elettorale (possibilmente per il M5S).

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I GUERRAPIATTISTI

l'editoriale di Marco Travaglio

23 novembre 2024

Giorno dopo giorno cadono come birilli tutti gli slogan dei guerrapiattisti atlantoidi. E liberano la visuale sul Partito della Guerra che, prima di essere sloggiato da Trump, sta dando gli ultimi colpi di coda.

La Corte penale internazionale ordina la cattura di Netanyahu, Gallant e capi di Hamas per crimini di guerra. E i fan della Cpi, che due anni fa esultavano per l’imminente arresto di Putin, la attaccano o si allarmano perché senza Bibi salta ogni ipotesi di negoziato. Così dimostrano il doppio standard dell’Occidente, che applica il diritto internazionale ai nemici e lo ignora per gli amici. E fingono di non sapere che Israele è una democrazia e può darsi un altro premier, mentre la Russia è un’autocrazia e il suo presidente l’ha appena rieletto con consensi mostruosi.

Biden, autorizzando Kiev a bombardare la Russia con missili Usa e inviandole le mine antiuomo dopo le bombe a grappolo e gli ordigni all’uranio impoverito, si conferma un criminale di guerra al pari dei predecessori Clinton, Bush jr., Obama e dei complici Blair, B., Aznar e Sarkozy, dimenticati per 25 anni dall’imparzialissima Cpi con altre canaglie impunite perché amiche della Nato.

Zelensky, tomo tomo cacchio cacchio, dice: “Non possiamo perdere decine di migliaia di uomini per la Crimea”: meglio “la via diplomatica”. Ma va? Chi lo diceva mille giorni e 500 mila morti fa era bollato come “putiniano” e “pacifinto” dai fantocci Nato e iscritto nelle liste di proscrizione dei Servizi ucraini, che spesso portano dritto alla morte (fra i tanti, il reporter Andrea Rocchelli nel 2014). E così anche lui si candida a finire dinanzi alla Cpi, che Kiev non ha mai riconosciuto (e ora è pronta a farlo, ma solo per i crimini di guerra degli altri): la controffensiva del 2023 falciò in nove mesi 100 mila ucraini fra morti e mutilati per riprendere la Crimea che 10 anni fa votò un referendum sulla riannessione alla Russia. Ora si attende la prossima intervista in cui Zelensky scoprirà che non ha senso perdere migliaia di uomini (in aggiunta a quelli già morti) per riprendersi il Donbass, anch’esso quasi tutto russofilo e indipendentista dal 2014.

La Merkel, ultima testa pensante d’Europa, conferma nelle sue memorie di essersi sempre opposta all’ingresso dell’Ucraina nella Nato: il popolo non voleva (infatti nel 2004 e nel 2010 elesse presidente il neutralista Yanukovich, poi cacciato due volte dalla piazza sobillata dagli Usa perché obbediva agli ucraini anziché a loro); e l’annuncio al vertice Nato di Bucarest nel 2008 “fu una dichiarazione di guerra a Mosca” e una condanna a morte per Kiev.

Di questo passo, qualcuno potrebbe persino domandarsi: ma allora perché c’è la guerra in Ucraina? Se la Cpi indovinasse la risposta, ne vedremmo delle belle.

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